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Lotta alle élite, nuovi equilibri fragili. Crisi diffusa: il rischio è un domino

Contribuisce all'instabilità il rompersi di alleanze consolidate

Lotta alle élite, nuovi equilibri fragili. Crisi diffusa: il rischio è un domino

Il Medio Oriente è per definizione una regione politicamente instabile e questa instabilità cronica ha segnato la storia del dopoguerra. Ma il combinato degli eventi delle ultime settimane indica il rischio che il venir meno di alcuni punti di riferimento possa aprire la strada all'esplodere di conflitti molto pericolosi. E questo perché i diversi fattori di crisi mediorientali sono in realtà interconnessi tra loro, rendendo possibile e temibile un perverso effetto domino.

Quanto sta accadendo in Libano e in Irak merita particolare attenzione. Entrambi i Paesi sono scossi da proteste popolari senza precedenti, non solo per la vastissima partecipazione, ma soprattutto perché le loro modalità sembrano indicare il superamento di collaudati equilibri politici e religiosi. In Libano, la collera diffusa contro la corruzione dell'élite politica ha portato in piazza folle enormi che hanno superato le antiche divisioni tra sciiti, sunniti e cristiani: e così si assiste allo spiazzamento di Hezbollah, milizia sciita armata fino ai denti dai suoi protettori iraniani, con il rischio che prevalga la tentazione di un ricorso alla forza che farebbe riprecipitare il Paese nella tragedia di una guerra civile che avrebbe però caratteristiche affatto diverse da quelle di quarant'anni fa.

Perché se c'è una novità nella società libanese di oggi, essa è proprio il rifiuto delle divisioni su base politico-religiosa: e allora pur in un contesto complesso e confuso - un nuovo scontro potrebbe veder contrapposti il potente braccio armato sciita e il più debole esercito nazionale, che sembra più vicino alle nuove istanze che hanno portato alla caduta di Hariri, espressione del vecchio sistema.

In Irak, dove pure i precari equilibri etnico-religiosi sono sanciti in Costituzione per evitare pericolose contrapposizioni, la molla delle proteste di piazza è la stessa: la rabbia per l'incapacità di una élite politica percepita come corrotta e sorda alla voce del popolo di combattere efficacemente la dilagante povertà. Nel peggior stile dei vecchi regimi mediorientali, il governo di Baghdad ha fatto sparare sui manifestanti, e i morti in diverse settimane di scontri si contano addirittura a centinaia. Anche in Irak, come in Libano, l'influenza dell'Iran sciita è molto forte, e per questo colpisce vedere partecipare alle dimostrazioni contro il governo quello stesso leader religioso e capomilizia sciita Moqtada al-Sadr, che degli equilibri di governo a Baghdad dovrebbe essere uno dei garanti. Anche lui sembra aver percepito che rimanere fermi ai vecchi equilibri in una fase di esplosiva collera popolare può essere molto pericoloso.

La Siria richiederebbe un vasto capitolo a parte, e in questa sede è appena il caso di notare che è in atto un profondo rimescolamento di carte, con numerosi soggetti attivi nelle operazioni di riassetto di un Paese devastato da otto anni di guerra civile. Alla conferenza Onu sulla Siria partecipano le tre principali potenze coinvolte: Russia, Iran e Turchia, con i curdi convitati di pietra e la cospicua irrilevanza del rinunciatario Occidente, che sembra rassegnato davanti all'affermarsi sul terreno di un nuovo ordine internazionale che lo vede marginalizzato.

Altro capitolo richiederebbe lo stesso Israele, impastoiato da una instabilità politica senza precedenti.

Nessuno dei suoi nemici può dimenticare la sua superiorità militare, ma la notizia che missili iraniani che possono minacciare lo Stato ebraico siano stati posizionati fin nello Yemen ha il suo forte significato anche simbolico.

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