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Modello Friuli di moda, ma ogni soluzione è a sé

I progetti a confronto

Modello Friuli di moda, ma ogni soluzione è a sé

Roma - C'è il modello Friuli, che tutti dicono di voler seguire. Anche Vasco Errani, che sta per essere nominato commissario di governo per la ricostruzione, pensa a quello. Lo ha sperimentato durante il terremoto in Emilia del 2012 e ora lo studia in attesa della nomina formale dal governo Renzi. Anche il premier benedice quello stesso modello, inserendolo in cima alla lista degli esempi positivi di gestione post-sisma. E poi c'è quello dell'Aquila, che Renzo Piano, dopo il colloquio con il presidente del Consiglio su come avviare la ricostruzione, mette invece nella black-list.

Ogni terremoto ha avuto un suo modello, ogni governo ha scelto di procedere in maniera diversa. E dopo ogni tragedia si cerca di scegliere quello che in passato ha funzionato meglio. Anche se in realtà questi modelli di ricostruzione, su cui tanto si insiste, finiscono per essere degli slogan vuoti. Perché sono diverse le situazioni a cui si devono adattare. Ogni sisma ha una sua storia. Nel 1976 in Friuli si diede la precedenza alle imprese perché era un tessuto produttivo ricco, al contrario della zona di Amatrice. All'Aquila, dove sono state costruite le new town, gli sfollati erano 40mila, mentre oggi sono 2.500 ed è più facile pensare a dei mini-chalet in legno.

Friuli. Sono passati 40 anni dal sisma che provocò mille morti e rase al suolo 44 paesi. Ma quello del Friuli continua ad essere considerato un modello di ricostruzione esemplare: pochi interventi legislativi, niente scandali o ruberie. Si decise di partire dalle fabbriche, con leggi specifiche per ripristinare l'efficienza produttiva delle aziende. Poi si passò alla ricostruzione delle zone colpite, rifacendo tutto com'era e dov'era. I sindaci furono protagonisti. Ai Comuni vennero concessi i contributi stanziati dalle leggi nazionali, il primo caso di federalismo. La situazione politica attuale difficilmente lo consentirebbe. E poi ad Amatrice e dintorni non ci sono zone industriali da far ripartire, ma piccoli paesi che vivono di turismo e ristorazione.

Emilia Romagna. Anche qui le comunità sono rimaste dov'erano ed è stato ridotto al minimo il ricorso ai moduli abitativi provvisori. È stata istituita una cabina di regia con i sindaci e ai comuni è stato attribuito un ruolo chiave nella gestione delle procedure. Le imprese sono state aiutate a ripartire per evitare che il territorio venisse abbandonato, sono stati fatti accordi per delocalizzare temporaneamente i lavoratori e il meccanismo di assegnazione dei contributi è stato pensato per assicurare la massima tracciabilità dell'uso dei fondi.

L'Aquila. È stata ricostruita una nuova città a qualche chilometro di distanza da quella distrutta, il cui centro storico non è mai stato ancora ricostruito. Questo è stato vissuto come uno sradicamento dagli abitanti, ma è stata ritenuta una soluzione necessaria per gestire un numero decisamente più importante di sfollati.

Irpinia. Il terremoto del 1980 provocò, oltre a 2570 morti, circa 300mila senzatetto, che furono sistemati in tende e roulotte, poi in 11mila container, gli ultimi dei quali smantellati soltanto qualche anno fa, e in 26mila prefabbricati.

Solo in un secondo momento si passò alla ricostruzione vera e propria grazie ad una legge approvata un anno dopo che prevedeva ingenti finanziamenti per lo sviluppo delle aree terremotate.

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