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La Mongolia in crisi chiede soldi (e cavalli) al popolo

Paese in ginocchio per il crollo dei prezzi di rame e oro. Via all'autofinanziamento

La Mongolia in crisi chiede soldi (e cavalli) al popolo

Oltre ottant'anni fa gli italiani donarono le fedi alla Patria. Oggi i cittadini mongoli donano cavalli e denaro, ma lo scopo è lo stesso: aiutare il proprio Paese in un momento di difficoltà.

L'idea è venuta all'economista Buukhuu Osorgarav, direttore generale della Ulaanbaatar Audit Corporation, che a fine gennaio ha lanciato la campagna invitando tutti in mongoli tra gli 8 e gli 80 anni a donare qualcosa. Lui ha iniziato con 10 milioni di Tugrik (circa 3.800 euro), la sua fede d'oro e dieci cavalli. Altri lo stanno seguendo, racconta l'agenzia giornalistica indipendente Akipress: alcune aziende locali attive nel settore minerario hanno versato 100 milioni di Tugrik, mentre alcuni parlamentari hanno deciso di donare tre mensilità di stipendio.

Alla Mongolia servono subito 580 milioni di dollari per ripagare i bond in scadenza a marzo, ma con l'economia ferma non ci sono soldi. Il primo ministro Jargaltulga Erdenebat ha assicurato di aver messo da parte 200 milioni di dollari per ripagare parte del debito, mentre sta negoziando un ulteriore prestito da 400 milioni con il Fondo monetario internazionale. Nel giro di due anni il Paese dovrà rifondere oltre 1,8 miliardi di dollari di prestiti, in maggioranza alla Banca centrale cinese. La situazione è grigia: in due anni la moneta è crollata del 25%, la povertà è cresciuta del 21% e il debito ha iniziato a salire fino ad arrivare a 23,5 miliardi di dollari, il doppio del valore dell'economia.

Dopo un lungo periodo di crescita a due cifre la crisi in Mongolia è iniziata quando il valore delle materie prime si è dimezzato. Grazie all'apertura di miniere enormi come quella di Oyu Tolgoi, il secondo giacimento di rame e oro del pianeta, le estrazioni di minerali assommano all'86% delle esportazioni mongole. Ma i prezzi sono crollati, Cina e Russia i principali acquirenti rallentano e il banco è saltato. Come se non bastasse la crisi del settore estrattivo è arrivato un inverno particolarmente freddo in cui gli animali la metà degli abitanti della Mongolia sono pastori nomadi che fanno affidamento sulle greggi per il sostentamento non sopravvivono. Quello del 2016 è stato particolarmente severo e oltre un milione tra pecore, capre, cavalli e yak sono morti. Nel 2010 erano stati 8 milioni, ma allora l'economia galoppava e chi lasciava le steppe poteva aspirare a trovare posto in miniera. Adesso non più. E la crisi ha tagliato anche quel poco di stato sociale che il Paese stava costruendo.

Il primo ministro Erdenebat ha specificato che il governo non ha chiesto nulla ai cittadini. «L'azione è spontanea e il governo destinerà le donazioni alla sanità, all'istruzione e alle infrastrutture pubbliche». In Italia la campagna «Oro alla patria» partì dall'alto. Il 18 dicembre 1935 con la «giornata della fede» uomini e donne furono invitati a donare i loro gioielli in risposta alle «inique» sanzioni che la Società delle Nazioni aveva comminato all'Italia dopo la conquista dell'Etiopia. Tra pressioni delle istituzioni e slancio della popolazione fu un successo: furono raccolte 37 tonnellate d'oro e 115 d'argento. Con una popolazione di 2,8 milioni di persone e un reddito medio di 11mila dollari difficile che la colletta possa portare a qualcosa. Anche se Osorgarav è sicuro: «Se tutti i cittadini donassero metà del loro conto in banca e tutte le imprese si tassassero arriveremmo a 4,5 miliardi di Tugrik».

Che comunque non sarebbero abbastanza.

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