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Obama prepara una mossa d'addio contro Israele

Obama scende nel grottesco con la sua ormai quasi noiosa antipatia per Israele che sembra alla ricerca di nuovi orizzonti

Obama prepara una mossa d'addio contro Israele

Mentre ci perseguitano le terribili immagini dello sterminio di Aleppo e ci accompagnano nella desolazione di aver visto, nella nostra era, naufragare il «successo della libertà» del discorso inaugurale di John Fitzgerald Kennedy, ovvero della garanzia americana di un mondo in cui la democrazia fosse almeno in lizza per stabilire il suo primato, è ancora più paradossale, persino frivola, la china su cui in questi giorni ci tocca discendere. Da parte di Obama, dopo la rinuncia (ormai irrecuperabile data la presenza russa con gli S300), a bombardare gli aerei di Assad, Obama scende nel grottesco con la sua ormai quasi noiosa antipatia per Israele che sembra, proprio adesso, alla ricerca di nuovi orizzonti. Potrebbe essere la sua legacy in un Medio Oriente a pezzi: una povera cosa per la leadership che era partita col mantello rosso del premio Nobel. Ma come un filo d'Arianna, una quantità di indizi portano a sospettare che Obama proprio subito dopo il voto dell'8 novembre e prima della nomination del 20 gennaio, quando non si può più influenzare il voto e danneggiare Hillary, immagini una durissima mossa antisraeliana. Ovvero, di fronte a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu nel periodo dell'«anatra zoppa» la quale ignorando la necessità di una trattativa fra le parti imporrebbe confini e caratteristiche per la nascita di uno Stato palestinese, non porrebbe il solito veto statunitense. Lascerebbe vincere la risoluzione affiancata all'iniziativa francese per una conferenza di pace.

Sul terreno, le conseguenze sarebbero solo quelle del discredito e eventualmente di sanzioni per Israele, ma è proprio il discredito, la messa all'angolo quello che, in tempi di BDS, sembra, più o meno consciamente, animare la politica americana verso Israele. Incredibile, ma la Casa Bianca ha cancellato fisicamente, dopo aver già diffuso il comunicato sul discorso del Presidente, il riferimento al fatto al funerale di Peres abbia parlato da «Gerusalemme, in Israele». Cioè, quel Peres tanto incensato non sarebbe più sepolto in Israele, ma chissà dove, in una terra di nessuno. Più avanti, usando il funerale come una clava, mentre il mondo brucia, il Dipartimento di Stato ha emesso un comunicato dai toni iperviolenti per la costruzione a Shiloh di alcuni appartamenti (per ricollocare i settler espulsi da Amona, un insediamento illegale sgomberato) dicendo in sostanza, che la memoria del leader scomparso veniva tradita e che «si cementa così un'occupazione perpetua inconsistente col futuro di Israele come Stato ebraico e democratico». Addirittura! Le case, ha ripetuto il governo, verranno costruite in un vecchio insediamento per profughi di un altro insediamento distrutto, senza portare un uomo in più. Dunque, la critica sproporzionata fa pensare a due cose: la prima è che si stia costruendo l'atmosfera per un attacco politico, la seconda che Obama voglia lasciare un segno in Medio Oriente con quello che ritiene una spinta al processo di pace. Ma è difficile pensare che abbia ragione: il vero contributo che avrebbe potuto dare, è concepire un'idea nuova di distribuzione territoriale (i suoi predecessori l'hanno tutti fatto); spingere finalmente le parti al colloquio; chiedere ad Abu Mazen di rinunciare al sostegno al terrorismo; favorire l'integrazione di Israele in Medio Oriente. Non l'ha fatto.

Obama se insiste verrà ricordato per un retaggio di fallimenti, che verrebbe solo peggiorato dalla sanzione dell'unica democrazia del Medio Oriente fedele agli Usa.

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