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Parigi, attacco con la mannaia. Sangue vicino a Charlie Hebdo

Feriti all'agenzia che riprese l'assalto del 2015. Un 18enne pakistano è l'attentatore. Altri sei arrestati: "È terrorismo"

Parigi, attacco con la mannaia. Sangue vicino a Charlie Hebdo

Parigi riavvolge il nastro dell'orrore: poco prima di mezzogiorno, a un passo dalla storica redazione di Charlie Hebdo, un nuovo assalto. L'XI arrondissement è ancora una volta teatro di un attentato. La firma, una mannaia da macellaio. Scagliata su due dipendenti dell'agenzia di stampa Première Ligne. Stavano fumando in strada; la stessa squadra di reporter aveva girato anche un documentario sugli jihadisti e fu testimone dell'attacco che nel 2015 fece strage tra i giornalisti del settimanale satirico, proprio davanti al palazzo preso di mira ieri.

Un «luogo simbolico» lo definisce il premier Jean Castex, sul posto a tempo di record. Due feriti in ospedale. «Lotteremo con tutti i mezzi contro il terrorismo». Ma allora perché rue Nicolas-Appert era senza sorveglianza né protezione? Mentre la polizia cerca due uomini in fuga seguendo le prime testimonianze, la procura apre un'inchiesta per «tentato omicidio in relazione a un'azione terroristica» e «associazione terroristica criminale». E la Francia, che vive da settimane con minacce endogene per aver difeso chi irride l'islam, interroga via social l'Eliseo. Nelly Garnier, consigliera comunale di Parigi, parla di «irresponsabilità degli eletti che non traggono mai le conseguenze dagli eventi, siamo un Paese minacciato. Siamo città vulnerabili».

Parigi è nel mirino: da quando il 2 settembre Charlie ha ripubblito le caricature su Maometto, al Qaeda minaccia attacchi. Ieri su Le Figaro Jean-Charles Brisard, presidente del Centro di analisi sul terrorismo (Cat), parlava di appelli a colpire il Paese lanciati da simpatizzanti dell'Isis. E dei tanti radicalizzati in carcere a piede libero.

Intorno alle 12,30 di ieri, il primo sospettato del nuovo attentato, nato in Pakistan nel 2002, viene arrestato a piazza della Bastiglia. Vestiti insanguinati, Alì H. confessa poco dopo. Sarebbe «l'autore principale», dice il procuratore di Parigi Rémi Heitz. Ha gettato la mannaia vicino all'ingresso del metrò Richard-Lenoir. Il ministro dell'Interno Gerard Darmanin parla chiaramente di «terrorismo insamista» e annuncia altri cinque fermi a Seine-Saint Denis: pakistani nati tra il 1983 e il 1996.

Ma sulla fedina penale del 18enne nessun collegamento con la galassia terroristica. Ai Servizi non è noto per radicalizzazione. Scatta la perquisizione in Val-d'Oise, dove risiede. Parigi si blinda temendo altri plot: 5 scuole dell'XI arrondissement e tutte quelle del III e IV confinate; migliaia di studenti dalla materna alla superiore. L'intera zona è isolata dopo il ritrovamento di un pacco sospetto, un allarme bomba rientrato quasi subito. La polizia ferma un secondo sospettato, un algerino 33enne, e indaga sui rapporti tra i due.

Tre giorni fa l'appello di un centinaio di media francesi alla mobilitazione in difesa della libertà d'espressione. Ieri polemiche inevitabili sulla mancata sicurezza nella sede dell'agenzia di produzione che aveva filmato l'attacco del 2015. E ripercussioni politiche probabili, con un presidente, Emmanuel Macron, che non prende posizione nei confronti dell'islam: questa settimana criticato da Le Figaro per aver rimandato il discorso sulle linee guida sulle intrusioni confessionali nella società francese.

Il ministro Darmanin parla invece di «ferma volontà di lottare con tutti i mezzi contro il terrorismo». Ma non basta. Su Le Point la direttrice delle risorse umane di Charlie racconta cosa significhi vivere con la minaccia. Costantemente monitorati, porte e finestre blindate sempre chiuse, nessuno può entrare per un caffè o per un'intervista: «Dobbiamo far violenza su noi stessi per non soccombere alla paura». Perfino l'ex premier Manuel Valls, in carica durante l'attacco terroristico del 2015, ha chiesto a Macron di mettere i puntini sulle «i» a difesa della libertà di espressione. «Uniamoci di fronte alla barbarie», l'invito del presidente del Senato Gérard Larcher.

E anche a sinistra è un coro di dichiarazioni sull'«orrore» da fermare.

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