Elezioni Politiche 2018

Il Pd ha voluto i collegi ma i suoi big li disertano

Gentiloni rifiuta il duello con D'Alema, Minniti evita Reggio e la Boschi si rifugia in tre listini

Il Pd ha voluto i collegi ma i suoi big li disertano

Roma - Giggino Di Maio non può accettare «scorciatoie», né vuol buttarsi col «paracadute»: dunque, promette, si candida nella sua Pomigliano d'Arco. La Lega, che nei territori del Nord ci campa alla grande, sta per annunciare «nomi importanti», sostiene Matteo Salvini, così da rendere evidente che il Carroccio è «diverso» dagli altri.

Ma se i leader cosiddetti «populisti» si giocheranno l'intera posta sul tavolo del Rosatellum, e mentre Forza Italia e Leu studiano collegio per collegio quali candidati convenga presentare, l'aspetto più singolare di questa vigilia elettorale sta nell'atteggiamento del Pd, il partito che ha voluto questo ircocervo di sistema, 66 per cento proporzionale e 33 uninominale. La logica impiantata da Renzi nella norma si basa su una specie di «trucchetto» che si evince dalla scheda che troveremo nel seggio, più che in altri sofisticati marchingegni. Il voto diretto, semplice, elementare sarà quello che verrà espresso sul nome del candidato uninominale, posto in bell'evidenza, caratteri predominanti, in alto. Sotto, un coacervo più o meno districabile di loghi di liste che lo sostengono, nomi dei candidati «bloccati» nei listini eccetera. L'elettore più sprovveduto o nauseato (siamo la maggioranza) darà un'occhiata rapida e finirà per mettere la croce sul primo nome preferito, pur di scappar via al più presto. «Il Pd tornerà a crescere al di là di quel che dicono i sondaggi - spiegava infatti l'altro giorno Renzi -, perché nei collegi avremo la forza di traino dei nostri candidati, che sono i migliori». Che cosa induca a crederlo, non è ancora dato saperlo. Quel che è invece certo, al momento, è la fifa nera che si nutre al Nazareno riguardo le candidature uninominali, il cosiddetto «traino», che significa sobbarcarsi i maggiori costi e fatiche con il rischio di restare a casa. Per il Pd è spietata la concorrenza di Leu, pronta a piazzare i propri «big», gente legata al voto fideistico Pci-Pds-Ds-Pd da una vita, per sottrarre voti ai candidati renziani. Ecco perché a Bologna ci dovrebbe essere la strana sfida Bersani-Casini; a Ravenna si cerca chi possa sfidare Errani, in Liguria si cerca l'anti-Cofferati e così via. Contro D'Alema, in Salento, Renzi voleva mandare Gentiloni, che gli ha però opposto un deciso nyet. Gentiloni sarà perciò capolista nel listino «bloccato», ma non è certo la stessa cosa. Con la scusa che è ministro dell'Interno, anche Minniti diserterà la sfida diretta nell'uninominale, nonostante gli appelli del governatore calabrese Oliverio a farlo nella sua Reggio. Persino Renzi ha lasciato di stucco i seguaci di Arezzo, non mantenendo la promessa di candidarsi al collegio del Senato. E il sindaco Ghinelli ha tuonato: «Renzi si è preso gioco degli aretini; il cuor di leone di Rignano, il bullo di campagna, è scappato alla chetichella». Caso ancor più eclatante è quello della Boschi, «blindata» nei listini proporzionali (Toscana, Trentino, Palermo), dopo esser stata sconsigliata a candidarsi in collegi di tutta Italia. Proprio lei, la «madrina» di tutte le riforme.

In fuga precipitosa e con paracadute ultimo modello, pur di non mollare il seggio dorato.

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