Mondo

Shoah, il dolore e la fatica del ricordo in questo mondo che non aiuta Israele

Shoah, il dolore e la fatica del ricordo in questo mondo che non aiuta Israele

In che modo una bambina ebrea nata nel dopoguerra incontra la Shoah e impara a portarne memoria? Con fatica, con disgusto, con incredulità, ingenuamente. Si avvia verso un'indagine impervia: non c'è chi le insegnerà, le spiegherà, la consolerà. C'è il segreto della crudeltà umana che non si può, non si deve rivelare ai bambini, e il segreto della unicità della condizione ebraica. Nessuno vorrà rivelarle i due segreti, dovrà costruirsene da sola l'immagine. E ancora oggi la bambina di ieri è sola con queste due questioni, perché sia l'immensità dell'abisso che la sua indicibile unicità le sono proibiti. Questa proibizione è ciò che impedisce a colui che non ha questa duplice esperienza dentro di sé di essere un credibile alleato quando dichiarata never again. Mi dispiace, io non vi credo anche se vi apprezzo.

La bambina è sola mentre si costruisce nella sua mente un mosaico inaspettato. L'ebreo è ancora solo mentre ricostruisce faticosamente la sua gioia di vivere. A Kishinev il 6 e il 7 aprile del 1903 i contadini russi attaccarono gli ebrei, li fecero a pezzi, donne e bambini; ci furono condanne ed esclamazioni. Due anni dopo un'altra orgia di mutilazioni e stupri investì la stessa cittadina della Bessarabia. Roosevelt era certo contrario alla strage degli ebrei: questo non gli impedì di trattare altezzosamente e respingere Jan Karsky, l'eroico cristiano polacco che andò a chiedergli in ginocchio, per averlo visitato personalmente, di bombardare il Ghetto di Varsavia e la ferrovia che portava ad Auschwitz.

A casa nostra in Via Marconi a Firenze la Memoria, la Shoah e la persecuzione degli ebrei avevano due volti, anzi tre, e tutti misteriosi: il più quotidiano, quello di un ansioso riavvio del motore della vita fiorentina, della speranza domestica, del sorriso della mia nonna in cucina, della riabilitazione borghese della famiglia Lattes-Volterra, del lavoro caparbio e deciso della mia mamma ex partigiana e ora giornalista come fosse un proseguo della lotta. L'aspirazione a riprendere la vita dopo anni di fughe, di nascondigli, di Resistenza, di fame, paura, discriminazione, dopo la deportazione di tre giovani, bellissimi fratelli della mia nonna Rosina (due Gastone e Angiolino finiti a Buchenwald, e il terzo Beppino fucilato mentre tentava la fuga) rendeva indicibile l'orrore attraversato. La nonna infatti non lo diceva; ci narrava come in una fiaba a lieto fine di quando i fratelli e le sorelle coi coniugi e i figli e le figlie si erano nascosti tutti insieme, come pazzi, nella villa di Bellosguardo dello zio Gualtiero; e poi, fulminati dalla loro stessa temerarietà mista a terrore, si erano dispersi. Così tre di loro furono presi perché, nascosti in una soffitta il fumo di un'incauta sigaretta filtrò fra le travi, e i fascisti li trovarono così. Un biglietto affidato nelle mani di qualcuno alla stazione è stata l'ultima traccia. La nonna raccontava la fuga, la paura, la dispersione in episodi in cui c'erano case di preti buoni, il sarto del nonno che in piazza del Carmine aveva chiamato il cavalier Lattes dalla finestra perché si nascondesse a casa sua...

Israele fu subito la stessa cosa, lo sfondo realistico della vita ritrovata. Lo era anche per il babbo, che aveva voluto toccare la Shoah che aveva scampato quando era giovane sionista in Israele: adesso era tornato da un infinito, misterioso viaggio in Polonia, in pellegrinaggio a Baranow da cui provenivano suo padre, la matrigna, il fratello Moshe, 4 piccole sorrellastre, tanti zii e cugini che seguitò a nominare e a chiamare specie negli ultimi anni della sua vita. Poi a Varsavia aveva raccolto i documenti per costruire i libri che al posto delle parole dette hanno costituito il suo pegno. Israele era la logica, evidente risposta alla Shoah e lui per amore in Italia, la praticava andando a trovare le due sorelle che nel primo sionismo socialista erano emigrate, finché lui era sbarcato in Italia con la Brigata e si era poi sposato a Firenze. Il suo messaggio sulla Shoah era un vento di tempesta, nero, striato di sangue, indicibile. Non era disposto a condividere il suo dolore, ma solo a chiedere coi libri che si capisse, finalmente, di cosa si stava parlando. Una volta, nella disapprovazione generale, a una conferenza stampa (era corrispondente del giornale israeliano Al Hamishmar) di papa Giovanni Paolo II, lo apostrofò in polacco: «Come ha potuto tacere quando quella tribù selvaggia e spietata dava la caccia i bimbi negli orfanatrofi, ai vecchi e ai malati negli ospedali e nelle case di cura, agli handicappati, agli uomini e alle donne, alla gioventù di interi Paesi, per bruciarli vivi, per annegarli nei fiumi, per avvelenarli col gas, per seppelirli vivi in enormi fosse comuni?».

Dunque, sin da piccola ho imparato sulla Shoah un paio di cose: la prima è che il popolo ebraico ha subito un male che richiede uno sforzo di comprensione disumano, unico; e poi, che in virtù della sua speciale storia lunga tre millenni di resistenza, il suo senso di vita e di ribellione è rimasto intatto come uno dei calici di cristallo che mia nonna aveva miracolosamente salvato da casa Volterra. Questo senso di vita miracolosamente trovò la sua unica realizzazione nel sogno di Israele: se prima e dopo la Shoah non ci fosse stata Israele, il popolo ebraico sarebbe morto di ferite e di dolore. Invece è fiorito in maniera sorprendente. Il dolore e l'unicità chiedono risposte miracolose, sacrifici pieni tuttavia di gioia costruttiva: non tutti hanno voglia di capirli.

Sin da ragazzina la lettura del testo più classico per la gioventù, Anna Frank, mi ha lasciato oltre che molto affezionata ad Anna, piena di interrogativi e perplessa. La manipolazione del testo anche nelle sue riproduzioni teatrali aveva portato a una proiezione universalistica e persino positiva della storia e dello spirito di Anna, che alla fine ne esce disegnata più come una fanciulla presa dall'ansia adolescenziale e anche amorosa che dal tormento della reclusione in attesa della deportazione. Ma Anna la intuisce e prevede, spaventata e consapevole che si tratta della condanna a morte disegnata dai nazisti per tutti gli ebrei, e lo dice; ma nell'interpretazione volgare, essa viene disegnata soprattutto fiduciosa nella bontà umana, nella redenzione prossima ventura. Ma ai giovani che leggono il diario si dovrebbe invece spiegare la sofferenza di Anna, come fu scoperta e deportata, lei, sua madre e sua sorella insieme a milioni di innocenti; sono state uccise secondo un programma che alla fine l'ha trasportata con 3.659 donne insieme a sua sorella Margot, morta prima di lei e accanto a lei, fino a Bergen Belsen, fra incredibili sofferenze, mangiata dai pidocchi e dal tifo dopo le torture di Auschwitz. Questa è la Shoah, chi vuole coltivarne la memoria non deve cercarne un'inutile redenzione collettiva nella bontà umana. Non esiste. Ricordo che mi colpi molto anche il fatto che Se questo è un uomo fu all'inizio rifiutato dalla casa editrice Einaudi, selezionato da Natalia Ginsburg, perché ritenuto troppo specificamente ebraico, mentre il nazismo era il male universale e le sue vittime dovevano quindi incarnare, come il comunismo, una speranza universale di redenzione. Su questa scia si è costruita una cultura universalistica che fa dell'ebraismo un rappresentante del bene universale e dell'antisemitismo l'apoteosi di ogni cosiddetta (e dipende da dove la si guarda) cultura dell'odio. Ma chi pensa di difendere gli ebrei propugnando un fronte intersezionale anti oppressione, rifiutando di capire che oggi quando si dice sionismo si dice ebraismo, sbaglia fino ad allearsi di nuovo con un fronte antisemita.

La redenzione del popolo ebraico è stata solitaria e misteriosa, specifica e straordinaria come la sua storia di sopravvivenza per 2000 anni fino al ritorno a casa. Gli ebrei già dal 1895, quando un giornalista di nome Theodor Herzl vide degradare il capitano Dreyfus solo perché era ebreo, concepirono l'idea della salvezza dall'antisemitismo tramite il ritorno allo Stato degli Ebrei, Israele. Nel 1975 la maggiore comunità delle nazioni, l'Onu, nata proprio per proteggere il mondo dagli orrori nazisti, dichiarando che «sionimso era uguale a razzismo» compì un inutile gratuito atto razzista e antisemita. Dopo la Shoah i sopravvissuti hanno preso la strada del loro Paese, Israele, l'unica patria a cui tornare dato che l'Europa era il deserto del tradimento: quei ragazzi scheletriti e ridotti in solitudine dalla Shoah hanno dovuto subito impugnare un vecchio fucile e affrontare l'assalto dei Paesi circostanti. Nessuno si mosse in loro aiuto. Oggi quando si legge che l'Ayatollah Khameini giura di nuovo la distruzione del «cancro» Israele, nessuno protesta.

I politici di tanti Stati diversi che sono venuti nei giorni scorsi in visita in Israele per promuovere una nuova grande battaglia contro l'antisemitismo, se vogliono proporre una politica mondiale in cui never again non sia una pura espressione di conformismo universalista, devono sollevare ogni volta il problema dell'antisemitismo istituzionale, permesso o addirittura promosso. Le espressioni di antisemitismo corrente sono concrete, visibili e Israele non ha l'Europa accanto quando vi si oppone.

Never again? Solo se gli ebrei si difenderanno, come ormai sanno fare, da soli.

Commenti