Nessuno aveva visto nulla. Ora vogliamo vedere tutto. Nessuno aveva voluto vedere il tormento di una madre e intuire il dramma di un figlio e di un padre. Oggi si usano telecamere e microfoni, si sbircia, si origlia, si guarda dal buco della serratura, con la voglia di sapere, di scoprire, di arrivare per primi sul fatto, come se fossimo noi gli investigatori, i giornalisti, gli inviati pronti allo scoop. Riaffiora l'eterna e maligna voglia di guardare oltre la siepe, fermandosi dinanzi alla morte senza esserci preoccupati della vita, di Viviana e di Gioele. Quali erano i brandelli di carne di quella creatura straziata? Come era vestita la madre? C'è un filmato, c'è un testimone, qualcuno dice di avere visto, qualcun altro crede di avere intuito, tutti assenti prima e presenti dopo, a scavare nella tragedia, in attesa che qualche trasmissione televisiva illustri ogni dettaglio, con un plastico, con una intercettazione esclusiva e clamorosa, con la scoperta di un reperto sfuggito a polizia e carabinieri, con il sospetto di complici e il silenzio omertoso dei parenti. Una storia terribile con un epilogo tremendo ma con un libro che ha pagine già scritte in fretta, scarabocchi, schizzi per dimostrare di avere capito tutto, senza, però, spiegare nulla. Un'altra vicenda per riempire l'estate, un'altra storia per occupare i giornali e i dibattiti delle radio e delle televisioni, un'altra sfilata di opinionisti e criminologhe, la vivisezione spettacolare di corpi già lacerati dalla violenza di una morte oscura, misteriosa che non ha bisogno di rivelazioni. Il padre di Gioele scarica la sua rabbia sui social, abbraccia una bara, si aggiunge a una sagra di cui ormai siamo tutti attori e spettatori assieme, abituati in modo malvagio da quella che chiamiamo cultura televisiva, lo sfogo di umori, il vociare fastidioso di chi, a distanza di chilometri, ha usmato l'odore del dramma e ne spiega i contorni, entra nei dettagli. E il pubblico assiste, vorrebbe andare sul posto, come davanti alla casa di Olindo e Rosa a Erba, come lungo la strada dei Misseri ad Avetrana, pellegrini sciagurati che sfilano guardandosi attorno, ignorando il fastidio che provocano. È un film che non dovrebbe mai essere né scritto né girato ma che ha sempre gli stessi spettatori. C'è un termine di difficile scrittura e pronuncia ma che riassume questo teatro assurdo Shadenfreude, composto da shaden, danno e freude, gioia.
È il piacere delle disgrazie altrui, qualcosa di maligno, quasi demoniaco che riguarda tutti noi, che esiste nascosto, clandestino e poi si appalesa, a volte in modo volgare, plateale. Sta accadendo con Gioele e con Viviana. Non è bastata la loro morte. Abbiamo bisogno di ucciderli ancora.
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