Quando a campare di espedienti sono le istituzioni

La vicenda dei cosiddetti semafori intelligenti, programmati in modo da rendere impossibile l’attraversamento di un incrocio senza essere multati, ha scoperchiato un pentolone del cui contenuto, sebbene fosse sotto gli occhi di tutti, chi avrebbe dovuto vigilare ha fatto finta finora di non accorgersi: mi riferisco al malcostume di quelle amministrazioni che ricorrono alla moltiplicazione artificiosa delle multe per incrementare i propri bilanci. Gli esempi si sprecano e sono noti a chiunque abbia tenuto il volante in mano per un po’ di tempo: dai segnali stradali accuratamente nascosti dietro alberi o altri ostacoli a quelli illeggibili o con caratteristiche irregolari; dai rilevatori di velocità non presegnalati a quelli non omologati, e via dicendo.
In aiuto di questi taglieggiatori sono purtroppo intervenuti a suo tempo due provvedimenti legislativi sciagurati (approvati, giova ricordarlo, da un governo presieduto da tale Andreotti Giulio). Il primo è quello che impone ai Comuni di iscrivere a bilancio preventivo gli introiti delle multe, con l’ovvia conseguenza che la maggiore o minore severità di chi vigila sul traffico è di fatto determinata non dalla gravità o pericolosità dei comportamenti, ma dal fatto che il gettito delle multe sia o no in linea con le previsioni. L'altro è quello che in caso di ricorso avverso una multa ne raddoppia l’importo se il ricorso stesso viene respinto: un provvedimento che a suo tempo la Corte costituzionale dichiarò legittimo, ma che io continuo a ritenere una mostruosità giuridica indegna di una nazione che si definisce la patria del Diritto.
Sono due norme che non esito a definire aberranti e ispirate al principio che in Italia l’automobilista ha sempre torto. I semafori «intelligenti» non sono altro che l’applicazione scientifica di questo principio con il supporto della moderna tecnologia. Intendiamoci: non ho nessuna simpatia per chi guida da scriteriato; ho sempre sostenuto che i comportamenti realmente pericolosi o tali da creare intralcio ingiustificato devono essere puniti severamente. Ma a mio parere la violazione della legge, ancorché frequente, non dovrebbe essere considerata un evento normale al punto da fondarci sopra una voce di bilancio preventivo come se fosse una tassa qualsiasi. Né si può accettare che chi esercita il diritto, sacrosanto e costituzionalmente riconosciuto, di ricorrere contro quella che crede un’ingiustizia debba essere sanzionato se il ricorso viene respinto. È ora di ricordare a qualcuno che l’automobilista italiano non è un pollo da spennare, ma un cittadino contribuente (eccome, contribuente: è il più spremuto d’Europa) meritevole di considerazione e rispetto come tutti gli altri.
Siamo il Paese con il primato mondiale nell’arte di arrangiarsi, lo sappiamo. Il Paese dei film di Alberto Sordi, di Totò che vende la fontana di Trevi, del «fatta la legge trovata l’inganno». Qualcuno trova addirittura simpatica questa nostra propensione a vivere un po’ di imbrogli e un po’ di espedienti: dice che ci permette di cavarcela sempre.

Però è davvero intollerabile che certi pasticci li faccia anche chi rappresenta un’istituzione. Al cittadino un pasticcio lo si può perdonare, perché perlomeno corre un rischio: se lo beccano, paga. Ma almeno dall’alto, insomma, vorremmo un esempio.

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