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Quando il tempo era soltanto «pubblico»

Con le campane, decorato, laico o religioso l'orologio era il biglietto da visita della città

Marisa Addomine

Lo straordinario successo degli orologi da polso di alta gamma conferma, anno dopo anno, il valore che il pubblico di tutto il mondo attribuisce ai segnatempo personali. D'un lato, assumendo un atteggiamento distaccato ed un approccio filosofico, verrebbe da sorridere nel pensare alla follia di una umanità che impreziosisce ai massimi livelli la catena che la tiene prigioniera. Da millenni l'uomo misura lo scorrere del tempo con i mezzi più diversi, dal sole all'acqua, fino ai più sofisticati orologi atomici: la ricerca della maggiore precisione evoca sempre l'obiettivo, malcelato, di governare il tempo, di esserne padroni. Illusione antica quanto l'uomo, ma che sembra essere un archetipo mentale dal quale sia arduo sfuggire. Ma prima di essere personale, il tempo fu «tempo delle comunità». Tempo pubblico e potere per secoli costituirono un binomio inscindibile: nel mondo antico erano signori, governanti e alti gradi delle diverse religioni i committenti di quei capolavori meccanici che ancor oggi ci meravigliano. Mostrare il tempo, stupendo gli spettatori con automi, carillon, moti degli astri, era un segno di ricchezza e un messaggio immediato, per chi poteva intenderlo, di ricchezza, potere e padronanza della tecnologia. L'orologio pubblico della città era il biglietto da visita dei propri governanti: la sua costruzione e la sua manutenzione erano capitoli importanti di spesa per le comunità, che vedevano nell'orologio ben funzionante anche un'allegoria del buon governo. In epoca recente, il campanile degli edifici sacri, sia per altezza che per il fatto di ospitare le campane, divenne il punto prescelto più frequentemente per la collocazione dei segnatempo pubblici: ma in passato, quando l'orologio era cosa rara e meravigliosa, potere laico e potere religioso combatterono fieramente per la detenzione dello strumento che mostrava le ore. La Serenissima Repubblica di Venezia, pur campionessa di cristianità nella secolare tenzone contro i Mori, impose per secoli che l'orologio più importante di ogni città sul proprio territorio fosse collocato sulla torre civica. Solo più tardi, e solo per orologi di minore importanza, si passò anche nella Repubblica alla loro diffusione su campanili ed edifici religiosi. Tra la fine del Medioevo e il Rinascimento, il tempo della Chiesa, nato e cresciuto nel silenzio di chiostri e monasteri, cedette lo scettro al tempo dei banchieri, dei mercanti, degli artigiani. D'altronde, già nel 1370, quando Carlo V re di Francia fece costruire l'Orologio del Palazzo Reale a Parigi, impose che gli altri segnatempo della città fossero sincronizzati con quello reale. A quei tempi, però, la precisione era ancora una mèta lontana, per cui il popolo coniò l'espressione satirica «L'horloge du Palais/il va comme il lui plait» (l'orologio del Palazzo/va come ne ha voglia), deridendo il funzionamento erratico dell'orologio del sovrano, ma ugualmente sottostando alle disposizioni regali. Sono passati secoli, ma l'incanto dei misuratori del tempo è sempre immutato.

Simbolo di un microcosmo, fonte di meraviglia, status symbol, carta di presentazione dei propri gusti, l'orologio, allora come ora, è latore di un messaggio complesso e articolato, radicato da sempre nell'immaginario umano e capace di trascendere la sua mera funzione di indicatore orario.

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