Cultura e Spettacoli

Quel lupo che ha vinto il drago comunista

Coraggioso atto d’accusa, il libro di Jiang Rong ha già venduto milioni di copie

Il «pericolo giallo», il grande drago che dominerà il mondo perché il suo pil cresce con una velocità che l’occidente ha dimenticato, perché il suo miliardo e trecento milioni di persone riempiranno ogni angolo della terra. E un avvenire che appartiene a quel popolo sterminato e misterioso che, mischiato insieme Confucio e Mao, abituato a obbedire e a combattere, non conosce ostacoli. Ebbene, dimentichiamoci questa fenomenologia del futuro prossimo perché: «I cinesi non hanno scelta se vogliono resistere alla competizione mondiale: devono estirpare dal loro spirito le influenze nefaste ereditate dal passato contadino e riscoprire l'aggressività dei lupi».
Altro che drago e altro che cinesi. La storia appartiene ai lupi e ai popoli che ne hanno fatto il loro totem, come i mongoli, e a quelli che dai mongoli hanno preso le qualità del lupo, l’aggressività e il coraggio, l'astuzia e la pazienza, lo spirito d'avventura e l’ostinazione. Così: «Se i cinesi avessero imitato i lupi anziché adorare il drago si sarebbero forse risparmiati l’umiliazione del dominio straniero. E magari non starebbero ancora a rimpiangere la libertà e il benessere».
Dalla Cina che giornali e indici economici, tv e analisi politico-strategiche raccontano come archetipo della modernità più esasperata, Il totem del lupo (Mondadori, pag. 653, euro 19) arriva come gli epici racconti di un passato millenario, dove ciò che conta è la vita e la morte, la fame e la sete, il combattimento e la caccia, il sangue e l’acqua. Di Jiang Rong viene scritto, nella quarta di copertina, che «è lo pseudonimo di un intellettuale dissidente di cinquantotto anni, professore universitario di economia politica a Pechino». Il suo vero nome è Lu Jiamin, ma potrebbe chiamarsi in qualsiasi altro modo, e non perché sia un ignoto scrittore cinese, ma perché è il simbolo di un’intera generazione sopravvissuta alla Rivoluzione culturale, la generazione raccontata una decina di anni fa da Jung Chang, nel celebre Cigni selvatici. Come Chang, come tantissimi altri cinesi, Lu Jiamin è figlio di due eroi comunisti che nel caotico orrore della Rivoluzione culturale lo spietato arbitrio di Mao travolge tra torture e campi di rieducazione. E anche Lu Jiamin, come il protagonista del libro, Chen Zhen, alla fine degli anni Sessanta è uno studente reazionario mandato a rieducarsi in campagna, a lavorare lontano dal veleno della cultura. Solo che la campagna di Lu Jiamin-Chen Zhen è la Mongolia, la mitica prateria nord orientale da cui, per secoli, sono calati i barbari, la terra di Gengis Khan, dei cavalieri che in pochi decenni percorsero migliaia di chilometri, vinsero centinaia di battaglie, abbatterono decine di imperi, conquistarono il mondo. Ed è, anzi era, la terra dei lupi.
Figlio dell’Occidente, cioè della Tecnica, della Modernità per cui la Mongolia, la prateria, il lupo, sono la forza primordiale, la violenza, e quindi il nemico, Chen Zhen deve vedere i lupi sbranare pecore e cavalli, sopravvivere alla fame e al gelo, deve cacciare il lupo e ucciderlo per capire che il nemico non è il male, che si può combattere senza odiare, si può ammazzare rispettando, perfino amando la propria vittima, addirittura venerandola, perché il lupo è, nietschianamente, il circolo della vita, ne è l’eterno ritorno, il lupo che uccide i nemici della prateria, gazzelle, marmotte, topi e solo quando ha fame attacca i tesori dell’uomo, pecore e cavalli; l’uomo che uccide il lupo per difendersi ma non lo stermina, perché sa che senza il lupo l'equilibrio esploderebbe e il circolo Si spezzerebbe. In pagine che faranno rabbrividire il cuore tenero degli animalisti da salotto col chihuahua in tasca, Lu Jiamin, racconta un’epica battaglia tra un branco di lupi e una mandria di cavalli che da solo vale il prezzo del libro, dove nel rumore delle zanne che affondano nella carne dei cavalli, nell’odore del sangue, nel nitrito terrorizzato dei destrieri che fuggono verso il lago ghiacciato, nella ferocia dei lupi che attaccano, uccidono, divorano rivivono, miracolosamente, le eterne leggi della vita e della morte.
Dimenticando l’Occidente, la Tecnica, la Modernità, Chen Zhen s’inchina al lupo e alla sua civiltà, ne segue i ritmi e ne impara i riti. Ma dall’Occidente, dalla Tecnica, dalla Modernità Chen Zhen ha ereditato il peccato originale: la sete di conoscenza, il bisogno di mangiare la mela dall’albero del bene e del male. E per soddisfarla, illudendosi che il sapere produca sempre e soltanto benessere, decide di catturare un cucciolo di lupo per allevarlo e strappargli così i suoi segreti. Ma, dietro l’alibi di conoscere la Natura, la Tecnica non potrà fare altro che ucciderla. Chen Zhen ama il lupo più di un figlio, per lui si priverà del cibo, sfiderà la comunità, rischierà di finire in carcere, ma non capisce ciò che il vecchio saggio della prateria continua, inutilmente, a ripetergli: che privare un lupo della sua libertà è come cercare di imprigionare l'energia della natura. Alla fine, o la natura e il lupo si ribellano e uccidono l’uomo, oppure l'uomo farà morire la natura e il lupo.
Epica storia che per raggiungere la grandezza di un romanzo di Jack London avrebbe solo bisogno di un centinaio di pagine in meno, Il totem del lupo, venduto a milioni (almeno sei, più le edizioni pirata) di copie in Cina, sta diventando in Occidente la metafora della nuova Cina capitalista che deve mongolizzarsi, diventare libera e aggressiva come il lupo; ed è forse solo perché nascosta dietro il fragore delle crudeli battagliE della prateria, che la censura del potere, ottusa come lo è sempre, ne ha lasciato sfuggire la carica dirompente, si è lasciata «scappare il lupo». Ma è anche un coraggioso atto d’accusa contro una Cina che forse ci fa così paura solo perché il nostro Occidente, ancora più del paese del drago, non venera più il totem del lupo. Ed è, soprattutto, un ambizioso trattato di storia mondiale, in cui gli imperi si succedono seguendo le leggi della prateria, dove solo chi agisce, combatte e pensa come il lupo vince: «La storia contrappone da sempre le popolazioni più intraprendenti e audaci, che hanno la forza dei lupi, mentre le altre si crogiolano in una pace senza gloria nell’attesa di piegare il capo sotto il giogo di eserciti nemici».

E allora, diventa anche un monito contro la debolezza di un Occidente che si tiene stretta la sua «pace senza gloria» e trema ogni volta che fuori, nel buio della prateria, lontano dal fuoco degli accampamenti sicuri, sente l'ululato del lupo affamato.

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