Cultura e Spettacoli

Quelle ragazze di vita figlie dei khmer rossi

Quelle ragazze di vita figlie dei khmer rossi

Vivono in bilocali squallidi in attesa della chiamata di un magnaccia che le darà in pasto al prossimo cliente. Accovacciate su delle stuoie di plastica, la pelle umida di sudore, si fanno forza a vicenda. La speranza è che «il prossimo» non sia il solito pervertito o, peggio ancora, un mezzo sadico che le riempirà di ingiurie o di botte. Per dimenticare, le ragazze fanno uso del «Mâ ghiacciato», eroina sotto forma di cristalli, fino al giorno in cui non se la potranno più comperare.
In questo inferno vegetano le prostitute «salariate» di Phnom Penh, volti infantili precocemente invecchiati e un unico interrogativo negli occhi: perché? Carne fresca, corpi violati e stipati nel Building Bianco, un colosso di cemento arenato nel cuore della capitale della Cambogia. Si chiamano Aun Tauch, Môm, Da, Ksav, Phea, ma i loro nomi hanno poca importanza. Hanno vent’anni, poco più, poco meno, qualcuna anche quindici. Innocenze perdute nel Paese dei padri-soldati morti in combattimento e dei bambini-operai sottopagati. E della decomposizione sociale.
Nonostante il ritorno alla pace e il difficile riavvio alla democrazia, la Cambogia sente ancora incombere il peso del suo passato. Decenni di guerra civile e instabilità si riverberano nelle vite quotidiane della gente comune. E hai voglia a raccontare che il turismo esplode e a magnificare alcuni famosi gioielli architettonici dell’era di Angkor. La verità è che da queste parti non si sono ancora smaltite le tossine del regime di Pol Pot, responsabile del massacro di un milione e mezzo (forse due milioni) di persone.
Ma questa è storia nota. Meno noto è il fenomeno della prostituzione che si traduce in circa trentamila ragazze costrette dalla miseria a vendere il proprio corpo per sostenere le famiglie rimaste a marcire nelle risaie, nelle campagne o nei campi per rifugiati dell’era post-khmer rossi. Donne «puttane» con storie disumane attorno alle quali vige un alone di silenzio. Come quella di Aun Tauch, l’esile figura che passeggia sul cornicione del Building Bianco, viso ovale e lineamenti sottili inondati di lacrime, pronta a compiere un ultimo e liberatorio salto nel vuoto.
È solo una delle tante storie raccontate da Rithy Panh, scrittore e regista che raccoglie la memoria frantumata della sua gente. Il suo libro uscito in questi giorni, La carta non può avvolgere la brace, scritto con Louise Lorentz (Editore ObarraO, pagg. 230, euro 22, traduzione di Giusi Valent), è sviluppato in parallelo all’omonimo film-documentario (Premio European Film Academy Documentario 2007 - Prix Arte). Libro e film raccontano la vita quotidiana di un gruppo di prostitute. «Sono destini devastati - racconta l’autore che per mesi ha vissuto accanto a loro nel tentativo di ricostruirne il passato -. Tutte devono fare i conti con la malattia». E non solo. Le ragazze finiscono per scontrarsi con scelte laceranti e drammatiche come l’aborto: come trasmettere la vita a un bambino nato dalla violenza e dall’odio? Come crescerlo e mantenerlo? E, nel caso si decida di abortire, come fare una simile scelta quando il buddhismo insegna che non si deve attentare alla vita?
Rithy Panh ha scritto il libro prendendo spunto dalle 300 ore di materiale filmato. Il libro gli ha consentito di entrare maggiormente nell’intimità delle giovani e di approfondire i rapporti che le uniscono. «Seguire la traiettoria di ognuna di loro - spiega - è stato per me un modo per interrogare la società cambogiana. Sono diventate prostitute per motivi diversi, ma tutte le loro storie affondano nella povertà, nella discriminazione e nella violenza. Quando si parla con loro, quando ci si prende il tempo necessario per ascoltarle e lasciare loro la possibilità di esprimersi, ci si rende conto che una situazione simile non è casuale».
La Cambogia, prosegue Panh, ha conosciuto anni di guerre, deportazioni, disintegrazione delle famiglie, lavori forzati, carestia. E tanta gente è stata giustiziata sotto il regime dei khmer rossi. Accanto a questa pesante eredità, la società si sviluppa su basi poco sane: impunità, supremazia del denaro, corruzione, aumento del divario tra ricchi e poveri. La voce di queste prostitute - talvolta dura, talvolta molto poetica - la dice lunga sullo stato di un Paese e della sua gioventù priva di punti di riferimento. Non c’è dunque speranza? «Alcune ragazze - spiega - continuano a prostituirsi. Altre, come una delle protagoniste del mio libro, si sono costruite un’altra vita e sono uscite dal giro della prostituzione. Altre ancora hanno lasciato Phnom Penh senza dire dove sarebbero andate. Le ho perse di vista».
Gli chiediamo infine come vede il futuro del suo Paese: «Il mio libro pone uno sguardo su una Cambogia afflitta ma anche piena di speranza. Perché queste giovani donne sopravvivono in realtà in una condizione di resistenza. Ecco, anche questo è un aspetto che mi interessa: come si possa resistere nelle situazioni peggiori. Sopraffatte dalla vita, si battono come possono: danno sostentamento alle loro famiglie, rifiutano di farsi sconfiggere e si attaccano anche alla più piccola speranza in prospettiva di una vita migliore. Inventano un loro sistema di solidarietà e di amicizia. Vivono, insomma, per difendere la loro dignità».
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