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Il re dell’hockey si confessa: «Sono analfabeta»

Francesco Rizzo

Sarebbe stato curioso conoscere il parere di Mordecai Richler, compianto scrittore canadese tifoso della squadra di hockey dei Montreal Canadiens e autore di uno splendido romanzo, «La versione di Barney», in cui la leggendaria squadra del Quebec si rivela un'ossessione. Jacques Demers, 61 anni, vincitore nel 1993, proprio con i Canadiens, della Stanley Cup (lo «scudetto» dell'hockey nordamericano), ha ammesso di non saper né leggere né scrivere. Lo ha fatto nella sua autobiografia, appena uscita, ritratto di un monarca della panchina, premiato due volte di fila come allenatore dell'anno nella National Hockey League. Dopo una carriera vissuta pure a St.Louis, Detroit e Tampa Bay e che lo ha visto anche nei panni di general manager, Demers è oggi un commentatore tv. «Mi sento libero, non ho più bisogno di nascondermi perché nessuno mi potrà più fare del male», ha detto e in Canada c'è chi vuol fare di lui un testimonial della lotta all'analfabetismo. Ma la vicenda resta incredibile.
Cresciuto a Montreal da un padre con la bottiglia e il cazzotto facili, Demers, ex-cameriere e talent scout, si è fatto strada nella vita e nella giungla dello sport ingegnandosi con mille sotterfugi per non svelare la propria condizione. Tenuta nascosta, per un certo periodo, persino alla moglie. Aveva imparato a scrivere il proprio nome per firmare i contratti e se i tifosi pretendevano qualcosa di più di un autografo sapeva vergare un «mille auguri!». Quanto alla formazione da consegnare all'arbitro, il compito era affidato agli assistenti («che si occupino loro delle scartoffie», usava dire) e, in caso di problemi, una buona scusa era sempre offerta dal suo essere francofono e, dunque, non tenuto a conoscere l'inglese... Il sistema ha funzionato: molti suoi ex-collaboratori e giocatori si sono detti sbalorditi.
L'episodio farà gioco ai detrattori dell'hockey. Eppure, se in Italia il Milano schiera due laureati alla Bocconi, un'indagine nell'hockey professionistico americano ha svelato pochi anni fa che il 21% degli ex-giocatori ha terminato l'università e il 5% ha già un master in cornice. La stessa Nhl ha da tempo avviato il progetto «La vita dopo l'hockey» che aiuta chi smette con i pattini a completare gli studi: Stu Grimson, veterano delle piste, sta per diventare dottore in legge, dopo aver chiuso una carriera spesa più che altro nella panchina dei puniti.
Tutto ciò non cancella figure come John Garrett, portiere degli anni '80, che studiava latino per corrispondenza, convinto di poter incontrare un antico romano e attaccare bottone.

Ma in fondo, scriveva Richler, «la partita di hockey non è un posto per chiacchiere da intellettuali».

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