Controcultura

Resistere al conformismo? Mentre l'Italia si rassegna a Parigi ci prova Zemmour

Narcisismo sfrenato, odio di se stessi, nichilismo hanno affondato i nostri cugini. Che ora reagiscono

Stenio Solinas

A due anni dalla sua uscita in Francia, dove fu successo di vendite e di polemiche, Le suicide français, di Éric Zemmour, approda ora in Italia (Il suicidio francese, Enrico Damiani Editore, traduzione di Elena Faroni, 577 pagine, euro 19, il che permette alcune comparazioni e qualche riflessione. Prima però vale la pena fermarsi ancora un momento oltralpe, perché nell'arco di tempo che separa le due edizioni, il panorama che lì si è venuto ulteriormente a configurare è quello di una nazione di morituri decisa però a vendere cara la pelle. Protestano i giovani, il cosiddetto movimento Nuit debout, contro la legge El Khomri, ritenuta un'officina di disoccupazione e precarietà; protestano gli operai, o quel che ne rimane; protestano i lavoratori della compagnia aerea di bandiera; protestano i tassisti, gli agricoltori, gli insegnanti e il cosiddetto ceto medio statale, protestano i piccoli imprenditori, i piccoli commercianti e i pensionati... È insomma in atto un braccio di ferro fra il governo che vorrebbe riformare l'intero mercato del lavoro e una gran parte del Paese, mentre sullo sfondo la minaccia del terrorismo di matrice islamico-fondamentalista erode i margini delle libertà individuali e minaccia di trasformare in una costante lo Stato d'eccezione impegnato a combatterla.

Si tratta di una sollevazione trasversale, dove spesso si marcia separati senza per questo colpire uniti. Per fare un solo esempio, stando ai sondaggi il 70% degli elettori del Front National appoggia il movimento di protesta giovanile, che però rimanda più un diritto al «desiderio», liberal-libertario, una sorta insomma di indifferente narcisismo generazionale, che a una vera e totale contestazione al sistema. Dalle «notti in piedi», oltretutto, è assente il popolo, non foss'altro perché la mattina presto si deve alzare per andare a lavorare

È dunque una Francia tarantolata quella che si erge contro la smania riformatrice di Hollande e del suo primo ministro Valls, smania che però pare essere la stessa che, chiamata a governare, metterebbe in campo la destra repubblicana dei Sarkozy, Juppé e compagnia cantante. Si tratta cioè, come scrive Zemmour, di due realtà divenute interscambiabili, ciascuna perpetuando le scelte dell'altra, entrambe lavorando a sancire la fine di politiche nazionali autonome sotto il pretesto di un'unificazione europea: «La sinistra ci sorveglia da vicino, come è giusto per un popolo che ritiene pericolosamente portato al razzismo e alla xenofobia. La destra ci minaccia incessantemente di riforme decisive che ci obbligheranno, era ora, a lavorare, perché siamo dei lavativi. Più che rappresentarci, destra e sinistra sono i guardiani delle virtù. Da quarant'anni la litania delle riforme ha provocato l'ecatombe di agricoltori, piccoli commercianti, operai. Quelli che sono sopravvissuti, non vogliono morire. Questa idea fissa li rende cattivi e ringhiosi».

Cattivi e ringhiosi, già. Questa è la douce France che si profila nel nuovo Millennio e di cui Zemmour ricostruisce l'ultimo quarantennio di storia patria, prendendo come punto di partenza quel joli mai sessantottino che vide il trionfo della «Francia di tutte le liberazioni, di tutte le insolenze, di tutte le minoranze, fino alla più piccola minoranza che c'è, l'individuo, novello Re Sole magnificato da tutti i corifei». Oggi se ne raccolgono i cocci e oggi, in maniera convulsa, ci si accorge che quel futuro da terra promessa si è trasformato in un incubo da terra desolata: «L'ora è arrivata, il Mercato si impadronisce senza fatica di questi uomini senza radici e senza cultura per farne dei semplici consumatori. Gli uomini d'affari sapranno utilizzare l'internazionalismo dei loro più accaniti oppositori per imporre la dominazione senza riserve di un capitalismo senza frontiere». Con grande incisività, Zemmour racconta «la storia di un assoluto spossessamento, di una inaudita disintegrazione; di una dissoluzione nelle gelide acque dell'individualismo e dell'odio di se stessi».

Lasciamo adesso questa «terra desolata», e però in preda a convulsioni, rivolte anarcoidi, isole di resistenze corporative, disprezzo per la politica politicante, scintille di guerriglia metropolitana, casseur, teppaglia, emergere di istanze populiste antimondialiste, nazionali e quindi trasversali... Spostiamoci da noi, oltrefrontiera, quindi. Il lettore italiano di Il suicidio francese chiude il libro, guarda a ciò che accade in casa propria e si rende conto di vivere in un Paese narcotizzato, dove il conflitto sociale è assente, la politica continua a celebrare stancamente i suoi riti, il voto amministrativo non sconvolge più di tanto l'orientamento governativo, blindato da anni, mai sottoposto a verifica elettorale e frutto di un accordo di vertice, il Parlamento e il Quirinale che avocano a sé ed esautorano ogni ricorso alle urne. Lì dove i morituri francesi cercano di non farsi sotterrare prima di essere del tutto morti, gli italiani appaiono immersi in una sorta di dolce eutanasia, un trapasso senza strepiti dove il mantra del «non ci sono alternative» si accompagna all'irragionevole speranza che lo «stellone» italico alla fine ci salverà dalla catastrofe.

Il differente atteggiamento aiuta anche a capire perché un saggio come quello di Zemmour sia in Italia impossibile da scrivere. Lì si racconta di un Paese che per la sua storia passata e le sue ambizioni soffre ad essere ciò che ora è, «costretto a ingurgitare valori e costumi agli antipodi di ciò che aveva edificato nei secoli», una Francia negata, sconfitta, ma non del tutto ancora rassegnata. Qui va in onda da un settantennio la commedia di un Paese che non ha voluto considerarsi nazione, non ha saputo imporsi un corpo statuale degno di questo nome, ha sempre preferito demandare ad alleanze esterne qualsiasi ipotesi di interesse nazionale. Un Paese senza memoria, e quindi senza storia, se non nella fattispecie di un piccolo museo portatile del bello, fossile, residuale, buono per la retorica spicciola. Un Paese senza identità, avendo perduto e/o negato la propria continuità storica.

Perché identità non vuol dire non cambiare mai, ma definisce il modo di cambiare tutto restando noi stessi. Già, ma il problema è, appunto, voler essere qualcosa

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