La rivolta degli scrittori: "Cari editor così ci rovinate"

dopo l'inchiesta del Giornale, gli autori si ribellano ai curatori dei loro libri: troppe pressioni e poca lasticità. Avoledo: "Confondono fantascienza e storia". Lagioia: "C'è chi correggerebbe Dostoevskij". Scarpa: "Ma noi dovremmo essere meno insicuri"

Milano - È come quando entri in una di quelle case dove tutto è al posto giusto. Le costole dei libri non sono né troppo intonse né troppo squadernate; sugli scaffali - per understatement - sono lasciati cinque o sei granelli di polvere. Alle pareti, riproduzioni del Klimt più sensuale, oppure di qualche pittore pornografico contemporaneo: così durante la conversazione ogni tanto ti cade l’occhio su qualche accoppiamento giudizioso risolto nei tre colori di Mondrian e tu inizi a far confusione fra significanti e significati e alla fine desideri solo l’arrivo dei barbari o la resurrezione di Goethe. E poi: manifesti di mostre. Biglietti di teatro. Ricordi di viaggio. «Ancora un po’ di caffè?».

Era questa l’atmosfera che si respirava pochi giorni fa durante la nostra inchiesta sui rapporti tra editor e autori italiani: un idillio premuroso, garbato, fra intenditori, come se marito e moglie in odore di scambio di coppie volessero mettere a proprio agio l’ospite di riguardo: il mercato. «L’autore porta un’idea», ci hanno risposto un po’ tutti, «e noi l’aiutiamo a svilupparla, dandogli piccoli suggerimenti, nel pieno rispetto della sua autonomia». Alla fine, non si riusciva a capire da dove arrivasse tutta la sterminata omologazione della narrativa di oggi, se dallo Spirito del Tempo o dall’appiattimento commerciale degli editor o dall’anima conformista dei romanzieri. Allora, interpelliamo questi ultimi.

«Ecco» dice Tiziano Scarpa «che cosa mi accade nell’ultimo anno: sempre più autori, sui trenta, mi mandano una dozzina di pagine, il primo capitolo, e mi chiedono se posso dare un giudizio sulla base di quello che per me è solo lo stato grezzo di un libro». Ma nelle case editrici va proprio così... «Appunto. Si è creata questa “fabbrica del libro”, di buoni prodotti dignitosi da leggere e pervasi da un’ansia di conformismo teorizzata e cervelloticamente rivendicata come popolare e antielitaria da parte degli autori medesimi; romanzi del tutto privi di quella lotta amorosa col linguaggio, di quel combattimento col fantasma che per me è la natura stessa dello scrivere. Per questo motivo all’editore io consegno un libro solo quando per me è del tutto finito. Viene accettato senza problemi, come Groppi d’amore nella scuraglia, oppure visceralmente rifiutato, come Kamikaze d’Occidente». Nessuna contrattazione sul corpo del manoscritto, litigiosa o bonaria? «La letteratura non prevede che qualcuno ci metta le mani». Ma allora che cosa significa questa moda degli editor da cui gli autori vanno in pellegrinaggio, magari ogni tre pagine scritte? «Soltanto la paura di rimanere da soli con la propria opera».

«Ma essendo io» spiega Tullio Avoledo «un legale prestato alla letteratura, a volte ho bisogno dell’editor per controllare alcune informazioni o se mi sia contraddetto nel corso della scrittura, dal momento che la mia procede per accumulazioni. Per esempio, in Breve storia di lunghi tradimenti avevo saltato una giornata di narrazione. Mi hanno detto di compensarla con qualche riga, e mi sono usciti tre capitoli. Ma non è sempre così». Com’è le altre volte? «Nell’Elenco telefonico di Atlantide lasciavo un’automobile fuori per tutta notte, la mattina il lettore la ritrovava coperta di rugiada, bella parola, tra l’altro. L’editor la sostituì con la più corretta ma meno poetica “uligine”. Rimasi in disaccordo. Tuttavia è successo di molto peggio». Può stare su un quotidiano? «Sì, sì. Tempo fa mando un racconto di fantascienza ucronica a un’antologia. Nel testo immaginavo che la Germania avesse invaso l’America e che il mio personaggio, un poliziotto, conducesse un’indagine a New York. Il racconto torna indietro con le osservazioni dell’editor: “ma lei lo sa che nel ’49 la Gestapo non esisteva più? Ma lei è al corrente che Gandhi fu ucciso da un fanatico indiano e non fu impiccato nella Torre di Londra come dice lei?”. Non aveva capito nulla. Attesi per un po’, come nell’antico Giappone, l’arrivo del dito dell’editor in una busta, a mo’ di scusa, ma non accadde».

Derive del sistema... «E che derive. A causa dell’ispirazione divina, del mesmerismo o della peperonata della sera prima, certi editor, insieme ad alcuni “scrittori”, mettono giù libri improbabili, come Le Carré nel migliore dei casi, oppure romanzi in cui il plagio non esiste più o dove tutto è inverosimile: ci sono libriccini chick-lit o adolescenziali dove si vede da lontano che chi li ha scritti ha un abbonamento a Playboy e non è certo quell’autrice il cui nome sta in copertina. Penso che più un libro è di qualità, meno ha bisogno di un editor».

«Il mio editor» commenta Melissa P. «pensava che Cento colpi di spazzola fosse uno scherzo. Mi propose una nuova struttura, da memoir a diario. Fu per me come una scuola di scrittura creativa. Ma quando suggerì un finale diverso, più malinconico, dissi che volevo il mio happy end, dopo tutte le tristezze raccontate. A libro uscito, capì che avevo ragione».

«L’ultima parola ce l’ho sempre io» risponde Nicola Lagioia. «L’editor mi rende solo più esplicito qualche dubbio sotterraneo. Alcuni rimetterebbero a posto pure Dostoevskij, che sappiamo essere narratore “sgangherato” e che proprio a questo deve la sua insondabilità, la sua energia. Forse l’editor di tipo anglosassone va bene per scrittori minimalisti o per operazioni commerciali. Ma i veri romanzi non si possono addomesticare. Come fai a fare l’editing a Pynchon? I veri errori degli editor sono la mancata pubblicazione di Morselli, suicida inedito, o il pretendere da un autore un libro l’anno, come se l’interiorità creatrice potesse essere commissionata, o, peggio ancora, l’immissione sul mercato di troppi, troppi romanzi».
«Il talent-scout Tondelli dava indicazioni precise» racconta Silvia Ballestra, della quale è in libreria Piove sul nostro amore. «Ma il suo sound si incrociava già naturalmente col mio. Fu invece Canalini della Transeuropa a suggerirmi di sviluppare il personaggio di Antò Lu Purk, individuandolo tra altri. È vero, però, che alcuni editor mi percepivano come un’autrice giovanilista e si aspettavano l’ennesimo testo frizzante da leggere nei licei. Nelle grandi case editrici, dove i piani editoriali sono schematizzati come piani di marketing, questo comporta che quando consegni una narrazione inattesa, magari te la pubblicano lo stesso, ma senza paracadute, senza investirci molto. Una volta, vista questa mia “fama”, avevano già collocato in una collana di sapore postmoderno un mio romanzo. Consegnai invece un testo che li spiazzò, che rimase isolato all’interno di quella linea editoriale precisa. Per il mio Nina, la storia di un parto, mi chiesero di allungare un passaggio non fondamentale e di cambiare il finale. Non lo feci, sebbene capisco che avrebbe attirato di più il lettore. Oggi soprattutto, l’editor punta a trovare la pepita d’oro da 500mila copie, il 6 al Superenalotto.

Una ricerca che lo costringe a omologarsi al mercato o a ciò che pensa sia il mercato».

È come quando entri in una di quelle case dove tutto è al posto giusto. La foto in cima alla libreria, tra la cartolina erotica e l’invito a una presentazione chic, è quella del figliol prodigo.

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