Cultura e Spettacoli

RODRIGUEZ Sotto il burqa, la messinpiega afghana

Sono cresciuta facendo questo mestiere. E l’ho fatto anche in quel Paese maschilista

RODRIGUEZ Sotto il burqa, la messinpiega afghana

Lettura da parrucchiere. E se è proprio l’hairstylist che, deposti asciugacapelli, forcine e bigodini, impugna carta e penna per scrivere, come minimo il suo romanzo esce dal vestibolo del salon e fa un’entrata spettacolare sulla ribalta rutilante della classifica dei best seller. Il trucco - in tutti i sensi - è cambiare la prospettiva.
Deborah Rodriguez, 47 anni, l’ha fatto con un salto radicale. Piombando, spazzola e pettine in mano, dal Michigan in Afghanistan all’indomani della caduta dei talebani. Per avviare, con un istituto di bellezza aperto nella capitale, la sua nuova vita da scrittrice. Kabul Beauty School (tradotto in italiano da Maria Clara Pasetti per Piemme con il titolo La parrucchiera di Kabul, pagg. 314, euro 15,50) è il romanzo che, in vetta per sei settimane alla top ten del New York Times (e del quale sono già stati venduti i diritti d’autore per trarne un film), racconta della sua avventura mediorientale. E, non si fa per dire, di inauditi segreti di bellezza. In confidenza, ce ne ha rivelato qualcuno.
Deborah, è più strano essere parrucchiere e scrittore, essere un’americana in Afghanistan, o una parrucchiera a Kabul?
«La cosa più strana è essere una parrucchiera scrittrice. Fare acconciature è naturale per me. Mia madre era parrucchiera. Il mio ex marito è parrucchiere. La mia figlia maggiore, Noah, è parrucchiera. Ora trovo scioccante essere presentata come autore. Più che un autore, sono una story teller. È questo che faccio con il libro: racconto la mia storia».
Una storia vera. Come è finita a Kabul dal Michigan?
«Facevo parte di un’organizzazione di soccorso attiva a Ground Zero e ho incominciato a prestare aiuto alle vittime di New York. Poi lo stesso team ha iniziato a fornire assistenza nelle cliniche mediche afghane. Così, pur non essendo un medico, nel 2002 sono partita volontaria per Kabul».
E anziché lavorare di bisturi e suture ha preso a fare interventi con forbici e pinzette. Gesto rivoluzionario in quel contesto?
«Suona più rivoluzionario a un occidentale che sente dire dell’apertura di un istituto di bellezza in Afghanistan quando immagina che, per ricostruire un Paese, si debba incominciare da scuole, strade, ospedali... Non ha torto. Ma io sono una parrucchiera. Perciò mi sono trovata tanto più di casa tra le afghane, che per la cura dei capelli hanno da sempre un vero culto. Il guaio per loro è stato che i talebani avevano bandito tutti gli istituti di bellezza. Appena preso il potere proibirono, oltre a spettacoli, tv, musica e danza, anche la barba corta e la moda occidentale di tagliare i capelli. Prima della legge islamica invece c’era la guerra civile e, tra i colpi d’armi, affondò - o divenne sotterranea - anche l’arte dei parrucchieri. La gente pensa che nei Paesi islamici, siccome le donne girano velate, non si prendano cura del loro aspetto. Non è così. Sotto il burqa le orientali sono bellissime, anche se nessuno le vede. Ma hanno le loro grandi occasioni per mostrarsi: i fidanzamenti, i matrimoni, le feste per le nascite...».
Un affare di donne, la bellezza?
«Sì, è un terreno - di scontro - coltivato dalle donne. Sono molto competitive. E pettegole. Se ti presenti a una festa di matrimonio truccata o pettinata male sarai chiacchierata a lungo e da tutte. Se sei in età da marito sappi che le madri dei partiti migliori si stanno guardando attorno in cerca di una moglie per il proprio figlio. E prenderanno di mira madri e sorelle della papabile sposa: pronte a bersagliarle di gossip in caso il loro aspetto non sia più che accurato».
Campo di guerra tra femmine e rifugio di pace tra i maschi: la beauty school, vero gineceo in un Paese maschilista, è uno spazio segreto?
«Certo che sì. Un’oasi nel Manistan, come mi piace chiamare il Paese degli uomini. Un porto di salvezza, un santuario».
E lei, con il romanzo, ha aperto al pubblico il sancta sanctorum...
«Già. Soprattutto mi auguro di aver aperto una via di accesso al mondo femminile islamico. Di aver dato un volto umano alle vittime dei fanatismi religiosi. Di aver fornito del Paese un’immagine diversa da quella di una zona di guerra».
Ma di che parlavate chiuse là dentro, al riparo degli specchi, sotto i caschi accesi e i venti del phon?
«Di tutto ciò che amano dire le donne di tutto il mondo quando padri, fratelli e mariti non le ascoltano. Moda e spettacoli, divi da riviste - fornite dai clienti stranieri - e ricette di cucina. Di sesso anche, scherzando. E stando attente a non farci sentire dalle ragazze nubili, perché questo è proibito. Sul sesso coniugale ho udito anche confidenze agghiaccianti, riportate nel libro».
La vita delle donne afghane è migliorata dopo la caduta dei talebani?
«Quando io sono arrivata a Kabul, c’era grande speranza. Di fatto aumentò il numero degli atti di violenza, degli attentati suicidi, dei rapimenti... Le donne potevano sì uscire di casa, ma si sentivano sicure? Potevano acconciarsi i capelli e laccarsi le unghie, ma che accadeva poi a casa, in camera da letto? Potevano lavorare, ma continuavano a vivere senza elettricità... Dovevano pur sempre rispondere di se stesse a un uomo: padre, fratello, cognato o marito che fosse. È l’antichissima cultura della subordinazione delle donne nei Paesi islamici. Inestirpabile, anche strappando il potere dalle mani dei fanatici religiosi».
E lei, in seconde nozze, ha sposato un afghano!
«Perché mi sono innamorata di lui. E io non sono afghana. Dico sempre che in Afghanistan i generi sessuali sono tre. L’uomo, la donna e la straniera. Non sono sicura che Sam mi veda come una donna. Se è per questo ne ha un’altra, che vive in Arabia Saudita e dalla quale non può divorziare. Tanti afghani mi trattano, in quanto americana, al pari di un uomo. Credo sia un bene».
Un uomo sui generis con chiave d’accesso nel mondo a parte del gineceo, regno di bellezza. Che cos’è bello per le afghane?
«La pelle chiara, a costo di occultare le naturali abbronzature sotto il cerone. I lunghi capelli serici e neri. Gli occhi grandi e profondi orlati di riga scura. I corpi pieni e curvilinei, il contrario dell’androgina agile e filiforme che piace in Occidente. Le forme ubertose delle dive di Bollywood. Le luci dei vestiti disseminati di paillettes».
Come americana lei pare bella alle sue clienti afghane?
«La maggior parte delle donne e degli uomini afghani, quando guardano un americano o un europeo pensano che si sia appena alzato dal letto. Il mio aspetto è molto cambiato da quando bazzico dalle loro parti. Portavo biondi capelli tagliati corti, adesso ho lunghi capelli rossi. Ho provato anche una tinta nera, ma non mi dona. Il nero mi sta bene solo sugli occhi: sull’orlo delle palpebre, che allungo con un abile tratto di matita. Recentemente sono stata in Egitto, e mi hanno scambiata per un’araba.

Forse in Usa sembrerei un po’ sopra le righe, ma a me piace così».

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