Cultura e Spettacoli

Ron Leshem: «I miei soldati sono tutti prigionieri»

da Torino
«Mi hanno invitato a parlare con Dario Fo sul conflitto israelo-palestinese. Ho dovuto declinare. Non me la sentivo di discutere per un’ora su un tema così esplosivo davanti a un pubblico ansioso di risposte e certezze. L’argomento lo conosco bene ma è troppo complesso per essere affrontato in tempi brevi. Il confronto con un Nobel mi lusinga e senz’altro mi piacerebbe incontrarlo a quattr’occhi. Alla Fiera però vorrei limitarmi a parlare del mio libro».
Ron Leshem è sbarcato ieri a Torino. Nato nel 1976 a Ramat Gan, vicino a Tel Aviv, attualmente è il numero due al Canale 2 della tivù israeliana. Molto noto all’estero, lo è meno in Italia. Per ora. In Israele è diventato famoso grazie ai suoi reportage sull’Intifada ma è il suo libro Tredici soldati (Rizzoli, pagg. 378, euro 17, traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi) - da cui è tratto il film Beaufort di Joseph Cedar, vincitore dell’Orso d’Argento al festival di Berlino 2007 - a conferirgli il meritato successo. È un libro scomodo e duro che descrive la difficoltà di avere oggi vent’anni in Israele, in bilico perenne tra rimozione della realtà e urgenza di viverla. Come quando ti mandano sulle alture del Libano meridionale in terra di Hezbollah. E tu ragazzo, e altri come te, diventi bersaglio di un razzo e diventi carne da macello. Capita così, in un giorno qualsiasi, che la tua testa rotoli giù nel Litani, quello che chiamano il fiume della convivenza...
Come vivono i giovani israeliani il conflitto israelo-palestinese?
«Siamo tutti intrisi di pregiudizi. Tuttavia, come me, moltissimi giovani si confrontano sulla questione. Comunichiamo via Internet, la sera. Parliamo tra noi, gente che proviene dall’Iran, dalla Siria o dalla Palestina, gente anche lontana che sarebbe impossibile incontrare altrimenti. Parliamo, discutiamo e dissentiamo, ma teniamo il dialogo vivo. Abbiamo gli stessi problemi, vediamo gli stessi film, ascoltiamo la stessa musica, indossiamo gli stessi vestiti. Dovremmo essere nemici? Ho tenuto delle lezioni di giornalismo in Inghilterra. C’erano studenti iraniani ed egiziani. L’incontro si è prolungato per ore. È stato molto stimolante. E utile».
Anche gli scrittori hanno un ruolo importante in questo senso.
«Io rappresento solo me stesso. Posso tuttavia dire che la maggior parte degli scrittori ebrei-israeliani sono molto sensibili alla pace e cercano un dialogo in tutti i modi».
Lei ha incontrato David Grossman?
«È una storia molto dolorosa. Mi aveva telefonato per complimentarsi del mio libro. Ero emozionato. Ricordo che mi disse che non voleva farlo leggere a sua moglie perché il loro figlio in quel momento era in Libano. Non riesco ancora a credere che una decina di mesi dopo sia morto. Ho incontrato Grossman il mese scorso a Parigi. Sono scioccato dalla serenità, dalla forza e dalla sensibilità con cui parla di suo figlio. Non teme di affrontare l’argomento».
Lei scriverà ancora di questi temi?
«A breve lascerò la tv per dedicarmi completamente alla scrittura. Ho già firmato un contratto per tre libri. Ne avrò per i prossimi anni... ».
m.

gersony@tin.it

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