Lui si chiama Daniel Domscheit-Berg, a vederlo sembra un ragazzino vestito molto amodino. E  basta un attimo per capire che è anche un cervellone, cosa che ormai fa immediatamente rima con  computer.
Tutte due le impressioni sono esatte. Ma va fatta una piccola aggiunta, Daniel Domscheit-Berg è  uno degli haker più famosi del mondo, è stato a lungo il numero due di WikiLeaks e di Julian  Assange. Insomma nella divulgazione di molti dei file riservatissimi che negli ultimi anni hanno  creato non pochi grattacapi ai governi di tutto il mondo, vedasi gli Afghan War Diaries, c'è  anche il suo zampino. Nessuno più di lui è stato vicino al misterioso Julian Assange finito  sulla lista nera dell'Interpol per le sue rivelazioni di file riservati (veri o presunti). Domscheit-Berg è stato, per i tifosi di Wikileaks, il Little John della moderna Sherwood della  libertà d'informazione. Adesso però ha deciso di trasformare gli stessi principi di Wikileaks in  un "arma" per colpire anche quello che era il sito che dava ospitalità alle sue incursioni  piratesche (è stato bandito dopo un lungo dissidio con Assange). Per dirla con le sue parole  «introducendo la diffusione dei dispacci riservati della diplomazia americana, Julian Assange ha  scritto che quei rapporti ci avrebbero mostrato le contraddizioni tra i comportamenti pubblici e  ciò che succede a porte chiuse. Le persone hanno diritto di sapere cosa accade dietro le quinte.  Non avrebbe potuto dirlo meglio. È arrivato il momento di guardare anche dietro le quinte di  WikiLeaks».
Ecco come è nato il suo saggio-mémoire che ha appena pubblicato in Germania e che in Italia  viene tradotto per i tipi di Marsilio: «Inside Wikileaks, la mia esperienza al fianco di Julian  Assange nel sito più pericoloso del mondo» (pagg. 296, euro18,50). Si tratta di un libro  illuminante su molte cose, dal mondo carbonaro degli hacker, dove Assange era noto con l'ambiguo  soprannome di Mendax, ai meccanismi che hanno permesso la crescita esponenziale dell'influenza  di WikiLeaks.
Il risultato è il resoconto una sorta di viaggio iniziatico che ci fa vedere un giovane Daniel  Domscheit-Berg che annoiato del suo lavoro di esperto di sicurezza informatica, molto "profit" e  istituzionale, si fa rissucchiare nel parauniverso sotterraneo dei giustizieri della rete,  inseguendo un grande progetto libertario. E all'inizio è davvero tutto come nelle favole di  Robin Hood. C'è un eroe buono e dalla chioma bianca (Assange) che non dorme mai ed è sempre  incollato al suo laptop. Ci sono gli sforzi sovrumani per far funzionare vecchi computer  scassati -«quando quel server cadeva fuori ci si chiedeva se si trattava di un attacco  informatico o di censura... tecnologia da rottamare»-, l'incessante ricerca di volontari. Le  titaniche battaglie legali contro le Banche e i governi che vedono mettere in piazza i loro  scheletri nel cassetto (vedasi i dati della filiale delle Cayman della banca Julius Bar che  WikiLeaks ha pubblicato nel gennaio del 2008).
Ma poi ci sono i fatti reali, quelli che spesso fanno dell'informazione una lotta di potere. L'atteggiamento da mantenere coi media ufficiali, la ricerca di finanziamenti, la difficoltà di  controllare le fonti, il modo di gestire gli inevitabili errori. E pian piano tutto assume un  altro aspetto. Per difendere i server si iniziano a usare gli stessi metodi che userebbe una  banca per far circolare soldi sporchi, la segretezza su chi lavora in Wikileaks inizia a rendere  paranoici i suoi stessi membri «(Julian) diceva sempre più spesso che eravamo spiati e che  dovevamo diventare "untouchable" cioé intoccabili», per apparire più forti all'esterno si usano  tecniche degne della peggiore disinformazione, «Dietro agli innumerevoli comunicati  stampa...c'erano spesso le stesse persone che si facevano belle con un colorato ventaglio di  identità».
E la situazione peggiora decisamente quando iniziano ad arrivare grosse donazioni e si tratta di  gestire soldi oltre che un potere miediatico sempre più grande. WikiLeaks che ha pubblicato i  documenti segreti di Scientology, mettendo in luce i meccanismi spersonalizzanti e verticistici  della setta religiosa, inizia inevitabilmente ad essere vittima di un culto del capo del tutto  similare, Assange monitora tutte le questioni economiche in solitudine. Il motto del fondatore,  che sarebbe condiviso da molti governi dittatoriali, diventa: «Non si mette in discussione  l'autorità del capo in tempo di crisi». E se si vede dietro la politica mondiale solo una  cospirazione la crisi può essere eterna. Così Domscheit-Berg è entrato in un fortissimo  contrasto con l'intoccabile fondatore responsabile, secondo lui, anche dello sbaglio che ha reso  visibile in rete, al pubblico molti dei finanziatori di WikiLeaks. I nodi del contendere tanti,  eccone alcuni sempre secondo Berg: la mancata rendicontazione dei soldi entrati nel sito  attraverso le donazioni di Moneybookers, la creazione di legami privilegiati con certi organi  stampa con contratti non proprio chiarissimi...
Alla fine della loro guerra personale Daniel Domscheit-Berg viene sospeso e lascia WikiLeaks. Da  allora sta cercando di mettere in piedi un'altra piattaforma OpenLeaks che faccia suoi i  principi di WikiLeaks senza averne i difetti. E che le sue critiche siano di parte e legate ad  un'esperienza fortemente personale non lo nasconde.
Un saggio-mémoire rivela tutti i segreti di WikiLeaks
Daniel Domscheit Berg era il numero due di Julian Assange. Ora lo ha lasciato e vuole essere sicuro che i futuri informatori sappiano in che mani stanno per consegnare i loro segreti
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