Spettacoli

"Salpo verso i confini dell'umano"

Lo scrittore, celebre per i romanzi di mare, indaga la nostra natura e la nostra libertà

"Salpo verso i confini dell'umano"

Professore di Letteratura francese all'università di Lund, filologo, traduttore e navigatore appassionato, lo scrittore svedese Björn Larsson è autore di moltissimi romanzi, da Il cerchio celtico a Diario di bordo di uno scrittore ed è diventato famoso in tutto il mondo grazie al bestseller La vera storia del pirata Long John Silver (Iperborea). Il suo ultimo lavoro però è un saggio: Essere o non essere umani (Raffaello Cortina Editore, pagg. 436, euro 26), che si pone l'obiettivo ambizioso di «Ripensare l'uomo tra scienza e altri saperi».

Björn Larsson, come mai questo cambio di rotta?

«Non è un cambiamento totale, perché sono da sempre anche uno scienziato, ho scritto libri e articoli di linguistica e di letteratura francese. E ci sono già tracce di questo saggio nei miei romanzi precedenti: per esempio, nel Porto dei sogni incrociati, il capitano Marcel racconta la visione del mondo di suo padre, che è il seme di questo libro».

Come lo considera?

«È una sintesi di cinquant'anni di riflessioni, letture e ricerche per capire che cosa sia l'essere umano e che ho messo, man mano, nei romanzi, nei racconti, nei lavori scientifici».

Che cosa l'ha spinta a fare questa sintesi?

«La pandemia. Per cominciare avevo bisogno di concentrazione totale. Ho trascorso sette mesi da solo, in Svezia, senza poter vedere né mia figlia in Danimarca, né mia moglie in Italia ed è stata l'occasione per iniziare questo progetto».

Partiamo da titolo: Essere o non essere umani.

«Il titolo parafrasa Shakespeare, ovviamente, ma c'è questa piccola o che per me è molto importante. Nella scienza e nella filosofia contemporanee c'è la tendenza a parlare di natura umana come di qualcosa di fisso, definito dai geni e dall'evoluzione, un blocco che non cambia».

Invece?

«Invece già noi sperimentiamo che cambiamo, anche a livello individuale. Ma la cosa più importante, per me, era cercare di capire se esistesse davvero un margine di scelta».

La libertà?

«Gli scienziati tendono a definirla un epifenomeno: un'illusione, sotto i geni, i quanti, le onde... Allora ho cercato un modo, scientifico, per spiegare che abbiamo un margine di libertà: c'è una rottura fra il determinismo della Natura e quello che noi possiamo fare, e questa è la piccola o del titolo».

Come ha scoperto questa rottura?

«Emerge in ambito semantico. Abbiamo inventato la rappresentazione simbolica: non solo i simboli, ma anche l'idea che possiamo prendere qualunque cosa e farle rappresentare qualsiasi altra, il che ci dice dell'arbitrarietà dei simboli stessi».

Che cosa ne deriva?

«Due cose. Innanzitutto che c'è una rottura fra la nostra percezione della realtà e il mondo dei simboli; ma questo rapporto è precario, non ci dà alcuna garanzia che, perché esiste la parola, ci sia anche la cosa e, quindi, questo dubbio ci spinge a cercare un accordo sui simboli, a memorizzarli e ad averne cura. In secondo luogo, che abbiamo bisogno dell'intersoggettività per essere davvero umani».

Ci servono gli altri?

«Senza gli altri siamo nessuno, siamo animali come tutti. La condizione umana è precaria e potenziale: deve essere coltivata. E questo ha delle conseguenze per la scienza, che pretende di spiegare la specificità dell'essere umano».

Può farlo davvero?

«Per ottenere l'oggettività, la scienza deve porsi al di fuori del mondo studiato, osservarlo alla terza persona; ma questo significa trasformare noi stessi in oggetti: ecco perché la scienza pretende di occuparsi di una natura umana che non cambia, trascurando così le interazioni, le differenze, le eccezioni... Io dico: no».

«No» a che cosa?

«Non voglio negare l'importanza dei geni, ma dico di non trascurare la parte specificamente umana».

È ciò che definisce «umano umano»?

«È un'espressione che riprende il latino homo sapiens sapiens, quello che ha la coscienza e il linguaggio. Umano si riferisce poi a due aspetti: alla specie, con le sue abilità; a tratti come empatia, sensibilità, dialogo, civiltà».

Che altro caratterizza l'«umano umano»?

«L'immaginazione, che tutti gli scienziati usano, anche se nessuno la tratta come una capacità umana. Il senso del futuro, che ci consente di immaginare la mortalità e di affrontarla, rendendoci unici. La matematica. La scienza stessa. Io prendo sul serio il fatto che la scienza esista e che pretenda di spiegare l'essere umano; ma quest'ultimo non può essere solo il risultato dei geni».

Porsi certe domande è già «umano umano»?

«Sì. L'invenzione dei simboli intersoggettivi ci permette di chiederci come sia fatto il mondo, ci consente il dubbio; e il dubbio ci spinge a porci delle domande impossibili, come quelle sul senso. Nell'ultimo capitolo, poi, affronto un'altra sfida: il problema etico».

Come?

«Da questa teoria iniziale che ci dice di una necessità di interazione e di intersoggettività, emerge che l'umanità è potenziale e precaria e lì nasce una domanda etica: dobbiamo prenderci cura della nostra umanità, dobbiamo desiderarla. E attribuire un valore non solo alla sopravvivenza ma, anche, alla potenzialità di sviluppare la nostra umanità: è il dovrebbe essere, e tocca a noi».

Pone anche questa domanda: c'è bisogno dell'umanità?

«Da appassionato di astronomia e cosmologia mi vengono le vertigini: come è possibile che, attraverso noi, l'universo sappia che l'universo esiste? Questo è il buco nella fisica e nella matematica: dov'è, nelle loro equazioni, la consapevolezza che un'equazione sia giusta? Credo che, se fossimo gli unici esseri coscienti dell'universo, sarebbe una tragedia, perché tutto ciò che abbiamo creato scomparirebbe con noi. Però non so che farmene, di questa vertigine».

Che ruolo ha la letteratura in tutto questo?

«Il romanzo è un'immaginazione realista, che cerca di capire le possibilità della vita, del pensiero, della lingua: è un allenamento dell'immaginazione, e l'immaginazione è ciò che ci serve per delineare il futuro.

La letteratura si iscrive in quest'ottica».

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