Lo scandalo del silenzio di Dio

Bruno Fasani

Hanno stupito le parole di Benedetto XVI, pronunciate nel drammatico scenario di Auschwitz. Più che parole, un grido: «Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?». Lo stupore del cittadino nasce dal registrare un gesto di discontinuità rispetto a certo stile clericale, quello che ha la risposta sempre pronta per tutti i quesiti della vita. Un argomentare stereotipo che, indossati i panni del moralismo consolatorio, evita la fatica del silenzio e dello spartire le pesantezze del vivere.
Ma, nella sorpresa per un Papa che interroga Dio sui suoi silenzi, si celebra probabilmente un processo di identificazione, quello della gente comune, anch'essa incapace di dare risposta ai tanti drammi che si consumano sugli scenari della storia. Come non sentire, anche oggi, l'eco del pianto biblico di Betlemme, causato dai tanti Erode contemporanei, sguinzagliati a caccia di carne innocente per le pietanze perverse di pedofili senza scrupoli? Come non sentire il lamento di tanta giovinezza, perduta nei giochi da sballo, mentre si preclude, magari sotto protezione politica, l'avvento di un'età adulta, come vorrebbe il destino che l'anagrafe ci consegna?
Chiedendo a Dio il perché del suo silenzio, Benedetto XVI è come se fosse sceso dalla Cattedra del suo magistero, avesse deposto la tiara, per mettersi a fianco del suo popolo, solidale con esso, come un nuovo Mosè, disarmato e silenzioso.
Eppure, nelle parole di Papa Ratzinger, non è difficile percepire la domanda biblica di sempre, quella di Giobbe davanti alle miserie della vita. Oggi, come allora, è il silenzio di Dio a fare scandalo. Come non sentire le parole audaci e virili del salmista: «Svegliati, Signore, perché dormi?». Come non sentire il lamento dei discepoli sulla barca in tempesta, mentre il loro addormentato maestro sembra più intento a farsi gli affari propri, che a prendersi cura dei suoi seguaci?
Con Giobbe, Dio si dimostrò scocciato dei discorsi pii dei suoi amici, quelli che volevano dare risposte solutorie, con categorie razionali. All'uomo sofferente - così ci racconta la Bibbia - si limitò ad elencare tutte le meraviglie del creato, una per una, e ad evocare le «creature del terrore», Behemot e Leviatan, causa del male. Dietro questa risposta, apparentemente illogica ed anche beffarda, sta racchiuso in realtà il mistero del silenzio di Dio. Egli sta, sì, nella storia, come un lievito fecondo, ma non si sostituisce all'uomo nel fare la storia. Nell'elencazione delle cose buone e di quelle malvagie, messe lì quasi come il paravento della sua presenza, sottolinea piuttosto il protagonismo della creazione e quindi la responsabilità, in primo piano, delle creature.
È un tema importante anche per l'oggi, un tempo nel quale il fascino del miracolismo sembra lambire la coscienza di tanti credenti, privilegiando il sensazionale al senso di responsabilità. Tra richieste di miracoli, come in un super Enalotto della fede, e madonne che piangono, cresce l'individualismo delle coscienze, riducendo il cristianesimo a una specie di lotteria delle grazie, con tanto di classifica dei fortunati.
Ed è invece nel silenzio di Dio che emerge il protagonismo degli uomini, non perché abbandonati la Lui, ma perché responsabilizzati. Una responsabilità che interpella non solo sullo scenario della salvezza individuale, ma più ancora sui processi storici e sui fenomeni culturali collettivi, cioè sulla salvezza sociale.
Lo scandalo della corruzione politica di ieri e quello del mondo sportivo, oggi, non sono forse il termometro di una cultura diffusa, che ha confinato l'idea di bene e quindi di moralità nell'ambito del privato? Dio fa silenzio nelle mura di Tangentopoli e in quelle di Pallonopoli.

Ma è da questi spazi inquinati che la sua presenza-assenza interpella, perché la salvezza sociale torni ad essere una priorità, senza la quale il fai-da-te morale privilegia il falso star bene in solitudine. La domanda allora non è: dove sei, Dio? Ma piuttosto: cosa dobbiamo fare, Signore?

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