Cultura e Spettacoli

Scavi, simboli e romanzi Indagine sopra il Graal

«Oggi questo seggio troverà il suo padrone». È grande lo stupore che coglie i cavalieri riuniti attorno alla Tavola Rotonda. Il Seggio Periglioso, l’unico vuoto sul quale nessuno osa sedersi, è ora sovrastato da un’iscrizione. È la profezia dell’arrivo del cavaliere perfetto, ma chi sarà? Poi il fiume romba, s’ingrossa, trascina una spada conficcata nella pietra. E un’altra scritta: «Chi riuscirà a estrarla sarà il cavaliere migliore del mondo». Tutti i cavalieri di re Artù sono in fermento: oggi sapranno chi di loro è il primo. E a turno provano a estrarre la spada. Impossibile per tutti, ma non per chi deve arrivare: ecco incedere «un nobile della casa di re Davide e del lignaggio di Giuseppe di Arimatea». La storia è a una svolta, è entrato Galahad. Non porta spada, perché la sua lo attende nella roccia: Galahad la estrae senza sforzo: «Ero così sicuro», dice. Anche le parole sul Seggio sono cambiate: «Questo scanno appartiene a Galahad».
Quando il brusio scema, re Artù siede alla Tavola Rotonda e tutti lo imitano. E nel silenzio che scende scoppia il rombo del tuono, poi la luce accecante: ma non è il lampo, è come un sole radioso che toglie il fiato. E allora appare: il Graal, il Santo Graal. Nessuna mano lo regge, eppure percorre la sala coperto da un drappo bianco. E la tavola si riempie d’ogni ben di dio, e un profumo celestiale si spande per ogni canto. Poi, così com’è venuto, scompare. Allora un cavaliere si alza di scatto e invita tutti alla ricerca: la Quête, la Cerca del Santo Graal è cominciata.
Ma cos’è il Graal? Secondo la versione «archeologica» un oggetto concreto: un vassoio, un calice, un meteorite e altro ancora. E allora via alla ricerca intesa come scavo più o meno delirante: dalla Terrasanta alla Puglia di Castel del Monte, dalla Torino della Sindone alla Linguadoca dei catari. Perfino i nazisti ci hanno provato con grande dispendio di mezzi, senza risultati. Forse perché non esiste come oggetto, ma solo come simbolo? È quanto sostengono gli adepti del filone «simbolista», secondo il quale il Graal è un archetipo dell’inconscio oppure un simbolo sessuale e di fertilità e così via. Una venatura frequentata da pionieri come Julius Evola e Carl Jung e proseguita da vari epigoni sino alla stantia menzogna - travestita da verità - di un Dan Brown e i suoi «codici» davinciani: un’accozzaglia di stupidaggini inventate da altri e sparse con la protervia dell’ignoranza.
C’è però anche un terzo filone, quello «letterario» seguito con perizia investigativa e narrativa da Richard Barber nel suo saggio Il Graal. Barber risale alle origini del Graal, a quegli anni Ottanta del XII secolo quando un famoso autore di romanzi, il francese Chrétien de Troyes, scrisse il Racconto del Graal. Nei suoi versi l’eroe era però Parsifal, un giovane incolto che si era messo alla ricerca della corte di re Artù per diventare cavaliere. Al Parsifal di Chrétien capitò poi l’avventura destinata a sconvolgere la sua vita, la letteratura e la storia dell’immaginario dell’Occidente. Una sera, ospite nel castello del Re Pescatore, nobile ma ferito gravemente, Parsifal assiste a una solenne processione: in un bagliore crescente, un giovinetto reca una lancia dalla cui punta sgorga una goccia di sangue; lo segue una coppia di giovani con candelabri d’oro e, meraviglia, una bionda fanciulla, bellissima, che regge un «graal». È composto di gemme e oro purissimo. Tutto il corteo passa, scompare in un’altra stanza. E Parsifal tace. È tale la capacità letteraria di Chrétien che il lettore - l’ascoltatore del tempo, giacché i romanzi venivano letti a voce alta in pubblico - freme tutto per sapere cosa siano la lancia e il graal, e a cosa servano. La domanda cioè urge nella mente di chi osserva, così come nel cuore di Parsifal. Ma il cavaliere tacque, convinto di far cosa sgradita se avesse aperto bocca. Il Graal irrompe così nella nostra storia di europei come l’epifania di una dimensione sovrumana, meravigliosa e miracolosa, capace di dispensare beni e salute e, soprattutto, verità.
Parsifal pagò il suo silenzio a caro prezzo: dopo quella notte visse in esilio per anni, andando alla ricerca di quanto aveva già visto ma non aveva osato capire. È così per la verità: quante volte ci sorprende, ci irradia con un raggio della sua luce senza che abbiamo la forza di domandare, di varcare la soglia che ci separa da lei? Per questo Parsifal, con la sua umana debolezza, ci è così familiare.
Parsifal, dopo un cammino di purificazione, arriva a comprendere una parte di verità. A rivelargliela è un eremita, che gli spiega come il Graal contenga «una santa ostia» capace di guarire il Re Pescatore. E dunque il Graal non è importante in sé, ma come alveo di un dono superiore, di un’offerta che cura il fisico e l’animo. Fu tale la forza di quest’immagine che, rimasta incompiuta l’opera di Chrétien, si susseguirono a ritmo incessante altri racconti con molti Graal e nuovi eroi, come il nostro Galahad: destinato a compiere l’impresa e vedere il Graal per poi ascendere in Cielo.

Giacché la verità non può essere carpita, ma contemplata sì, e una volta raggiunta domanda soprattutto una cosa: l’ingresso nell’aldilà, nel Regno del vero.

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