Cultura e Spettacoli

SCHMITT

Può una pellicola cinematografica fornire una grande lezione di storia? Certamente sì. Lo dimostrava nel 1961, il grande film di Stanley Kramer Vincitori e vinti, che metteva in scena la fase finale del lungo processo di Norimberga, quando tra 1947 e 1948, esauritisi i procedimenti contro i massimi notabili del nazismo, la giustizia delle potenze vincitrici faceva salire sul banco degli imputati altri volonterosi gregari del sistema di potere hitleriano. Alti burocrati, capi militari, magistrati, professori universitari. Il film di Kramer narrava queste vicende con tagliente efficacia, grazie a due attori d’eccezione: Spencer Tracy, il giudice statunitense venuto da una piccola città del New England, per punire ma anche per comprendere le radici del male oscuro che aveva sconvolto l’Europa; e un indimenticabile Burt Lancaster, nei panni di un giurista tedesco, che aveva utilizzato la sua dottrina per avallare la persecuzione che il nazionalsocialismo aveva messo all’opera contro individui ed etnie ritenuti biologicamente impuri.
Il ruolo impersonato da Burt Lancaster corrispondeva ad un personaggio reale. Sotto lo pseudonimo filmico del professor Ernst Janning si celava infatti Carl Schmitt, uno dei maggiori teorici della politica del XX secolo. Brillante docente di Diritto pubblico a Berlino, Schmitt si iscriveva nel 1933 al partito nazista e veniva nominato Consigliere di Stato. In quel ruolo, cooperava alla stesura della revisione costituzionale voluta da Hitler e alla creazione dell’apparato legislativo antisemita, giustificava l’assalto tedesco all’Europa come mezzo indispensabile alla costruzione di un «Grande Spazio» imperiale, bonificato da ogni razza inferiore. Arrestato dagli alleati nel ’45, veniva indiziato presso la corte internazionale di Norimberga nel 1947, per «aver collaborato, direttamente ed indirettamente alla organizzazione di guerre di aggressione, di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità».
Se nella pellicola di Kramer, Ernst Janning rendeva piena confessione delle sue colpe, Carl Schmitt al contrario respingeva ogni addebito, dichiarando che la sua attività si era limitata ad esprimere «opinioni intellettuali, che hanno portato a molte fruttuose discussioni». Più tardi, nel 1950, Schmitt stendeva un’ambigua apologia del suo passato, con il volume Ex Captivitate salus (Adelphi, 1987), nel quale si tentava di accreditare l’ipotesi di un suo allontanamento dal Leviatano nazista, già negli anni precedenti il conflitto. Ipotesi contraddetta da un altro suo testo del 1947, Glossarium (Giuffré, 2001), dove si sosteneva che l’ebreo, anche dopo esser stato assimilato nella civiltà occidentale, restava il più insidioso nemico del genere umano.
Anche la profonda doppiezza di simili atteggiamenti non può assolutamente ridurre l’importanza di questo pensatore. Da lui, la nostra cultura ha appreso una nuova definizione della politica, secondo la quale questa attività umana è costituzionalmente predisposta a trasformarsi nella continuazione della guerra con altri mezzi. Definizione che ci permette di comprendere a pieno gli orrori del tragico Novecento, dove secondo l’analisi di Schmitt (Teoria del partigiano, appena ristampato da Adelphi), prendono corpo due nuove figure di combattenti: il partigiano e il terrorista. Coloro che si sono posti al di fuori dell’inimicizia convenzionale della guerra combattuta, secondo diritto, tra Stato e Stato, per ingaggiare una lotta di annientamento, priva di ogni regola, contro avversari ormai definibili come «nemici assoluti».
Del tutto retorica appare allora la domanda che è recentemente rimbalzata sulle pagine del quotidiano parigino Le Monde, a proposito della convenienza di continuare a leggere le opere di questo autore. A questo interrogativo, non si può che rispondere affermativamente. Certamente è giusto leggere Schmitt, studiarlo, approfondirne la lezione, ma a condizione di non celare e invece di mettere in evidenza lo stimolo intellettuale, che il nazismo esercitò sistematicamente sul suo pensiero. Una lettura decontestualizzata di Schmitt, come fu fatta dalla sinistra italiana dei primi anni Ottanta, allora alla ricerca di un pensiero politico alternativo alla consunta vulgata leninista, rimane, al contrario, incapace di mettere allo scoperto i «veleni» di un’opera che nasceva e si sviluppava nei tempi di ferro del trionfo del totalitarismo e dell’antisemitismo.
Ce lo ricorda un piccolo, prezioso volume, appena comparso in Francia, ad opera di Ives Charles Zarka: Un détail nazi dans la pensée de Carl Schmitt (Presse Universitaires de France, 2005): titolo volutamente provocatorio, quando si pensi che il «dettaglio nazista», di cui si parla, è l’intervento pronunciato, a Berlino, durante la riunione dell’International Law Association del novembre 1935, dove Schmitt tentava di fornire una giustificazione giuridica delle Leggi di Norimberga del settembre di quello stesso anno, con le quali il Terzo Reich aveva legalizzato il meccanismo di repressione antiebraico. Dinnanzi a uno scelto pubblico costituito da studiosi di diritto provenienti dalle maggiori nazioni democratiche, il giurista difendeva soprattutto il valore della legge «sul sangue e sull’onore tedesco», che decretava una rigida segregazione razziale per tutti i non ariani residenti in Germania. Partendo dalla sua concezione della lotta politica in quanto contrapposizione che non ammetteva nessuna possibilità di conciliazione tra le parti, Schmitt riportava la legge del settembre 1935 a una semplice disposizione di ordine pubblico con la quale il popolo tedesco voleva garantire la sua sopravvivenza contro le minacce del suo «nemico sostanziale»: la razza giudaica. La normativa, aggiungeva Schmitt, costituiva una misura di carattere puramente difensivo, limitata al solo territorio tedesco. La soluzione del «problema ebraico» era quindi un affare interno, che lasciava inalterate le regole del diritto privato internazionale. Una soluzione che la Germania non aveva alcuna intenzione di esportare fuori dei suoi confini.
Quattro anni più tardi, l’invasione della Polonia dimostrava la pretestuosità di questi argomenti. La legislazione contro la stirpe di Abramo si sarebbe diffusa a macchia d’olio nelle nazioni conquistate dalle armate naziste, trovando ferventi ammiratori. Durante il 1940, lo storico Delio Cantimori, primo traduttore italiano di Schmitt, che nel secondo dopoguerra sarebbe divenuto uno dei più illustri intellettuali del Pci, pubblicava, nel Dizionario di Politica del Partito Nazionale Fascista, un articolo dedicato al concetto di «Onore», che risultava essere una larvata apologia delle Leggi di Norimberga. Anche in questo caso, un piccolo «dettaglio nazista» metteva in luce il cuore di tenebra dal quale aveva preso origine una parte della grande cultura del secolo appena trascorso. Un piccolo dettaglio, è vero, ma di cui sarebbe colpa imperdonabile tacere, come molti, ancora oggi, sembrano invece intenzionati a fare.


eugeniodirienzo@tiscali.it

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