Cultura e Spettacoli

"Se avessimo tv e giornali saremmo simpatici"

Lo scrittore padovano Ferdinando Camon: «L’Italia non perdona il benessere del Triveneto, ottenuto senza l’aiuto dello Stato. Chi ci detesta dimentica che eravamo miseri contadini. Noi però siamo incapaci di farci conoscere attraverso i media»

"Se avessimo tv e giornali saremmo simpatici"

Quarta e ultima puntata sulla «questione Nordest», iniziata domenica con l’intervista di Stefano Lorenzetto a Gian Mario Villalta (autore del saggio Padroni a casa nostra. Perché a Nordest siamo tutti antipatici, edito da Mondadori) e poi proseguita con l’intervista all’editore Cesare De Michelis, patron della Marsilio. Ieri il dibattito è continuato con un intervento dello scrittore vicentino Giancarlo Marinelli (finalista al premio Campiello nel 2006). Oggi si conclude con un’intervista allo scrittore padovano Ferdinando Camon (Montagnana, 1935), autore di molti romanzi tradotti anche all’estero e vincitore di svariati premi letterari.

di Paolo Bracalini

Scrittore «fils de paysans», figlio di contadini, come lo raccontano i giornali francesi, Ferdinando Camon ha dedicato buona parte dei suoi venti libri all’infanzia del Nordest come lo conosciamo oggi, al Veneto contadino della miseria e del lavoro duro che spacca le mani. Recensendo Padroni in casa nostra di Gian Mario Villalta, sulla Stampa, si è lasciato andare a un pensiero amaro, che è allo stesso tempo un’accusa alla sua terra e una rivendicazione d’orgoglio: «Ci meritiamo la fama di antipatici, ma meglio odiati che compatiti».
Dunque, Camon, la vostra fama vi precede ma è tutta colpa vostra.
«Sì, il pessimo rapporto tra il Nordest e tutta la nazione è colpa del Nordest, è frutto di una cattiva conoscenza ma è il Nordest che non si fa conoscere. Non c’è una radio che arrivi a Milano o Roma. Non c’è una tv. Non c’è un giornale che entri nella mazzetta di chi abbia responsabilità sullo Stato. Manca un medium che faccia da collante del Nordest».
Se ci fosse, il Nordest sarebbe meno antipatico?
«Sarebbe meno antipatico perché sarebbe più conosciuto. Il Nordest è odiato anche perché ricco. Però ci si dimentica che, dal dopoguerra, due generazioni si sono sacrificate in una miseria immensa e in una povertà indecorosa. Io sono figlio di contadini, che hanno fatto quella vita, so cosa voleva dire. Ma questo la nazione non lo sa, e io mi incavolo. Ci sfottono ignorando i nostri immensi meriti».
Anche il Nordest povero non godeva di buona fama.
«Era sfottuto perché derelitto».
Ma meglio antipatici che derelitti?
«Certo, la pietà mi umiliava, adesso l’antipatia mi irrita, ma meglio essere antipatici che disprezzati».
Eravate il Sud del Nord.
«Quando uscì il mio primo libro, Il quinto Stato, con prefazione di Pasolini, la fascetta che imposi a Garzanti diceva: “Un’oasi di Terzo mondo in casa nostra”. Quella fascetta suscitò ribrezzo nelle aristocratiche mani dei frequentatori di librerie».
Il Nordest poi si è sollevato dalla miseria con le proprie mani.
«E questa è un’altra fonte dell’antipatia che il Nordest patisce. L’Italia lo ha visto misero, poi lo ha perso di vista e poi lo ha rivisto ricco. Questa crescita è stata vissuta come un’ingiustizia, perché non si è verificata per tutti ma solo per il Nordest. La mia tesi è che l’arricchimento è avvenuto a insaputa dello Stato, se lo Stato lo avesse saputo non ci sarebbe stato. L’attenzione dello Stato è paralizzante sul progresso, non è benefica. Infatti qui il problema sono le strade, che sono dello Stato».
Lei scrive: «L'aumento di ricchezza non è avvenuto insieme con un aumento di cultura».
«Intanto voglio dire che niente è stato più benefico per il Nordest della crescita economica e industriale. Sono sempre stato contrario al discorso di Pasolini, che diceva “darei tutta la Montedison per una lucciola”. Nessun contadino che abbia vissuto la campagna delle lucciole vorrebbe tornare indietro».
Ma perché il benessere del Nordest è rimasto “incolto”?
«C’è una responsabilità della borghesia del Nordest, che non ha intelligenza per il business culturale. Nel Nordovest La Stampa fa da collante capillare, se il Nordest avesse un medium analogo, il Nordest conterebbe. Invece non ce l’ha, i nostri giornali sono un frutto della borghesia romana, dei De Benedetti e dei Caltagirone. La borghesia veneta non vede la cultura, neanche quando la cultura è un affare».
Ma c’è una “cultura del Nordest”, esistono gli “intellettuali del Nordest”?
«Io nego che esista qualcosa del genere, nego che gli intellettuali del Nordest formino una rete. Io non so mai cosa faccia Magris, mai cosa faccia Zanzotto, perché non ci troviamo su un giornale nostro, pluriregionale. Siamo dispersi, uno scrive qui, uno là».
Stessi limiti per le case editrici?
«Certo, vale anche per le case editrici. La Marsilio è una grande cosa, ma è la sola. Le case editrici a Padova, per esempio, sono tutte quante universitarie. La cultura di dibattito non c’è. E io soffro di questo. Qui non si legge, i ragazzi non reggono il confronto con i coetanei europei. Certi paesi qui hanno il primato nazionale nel numero di ragazzi bocciati o ritirati al primo anno di superiori. Ho chiesto a Galan di fare qualcosa, non è successo niente».
C’è chi, anche in politica, cerca di recuperare le radici culturali e dialettali del Nordest.
«Sì, ma lo si fa in modo bucolico, edulcorato, celebrativo. Io ho raccontato la vita della campagna di allora ed era una vita bestiale, tra uomini nelle case e bestie nelle stalle non c’era molta differenza. In questo recupero, sotto forma di culto o in chiave politica, del mondo dialettale e paesano si perde l’essenza di quel mondo, che era la sofferenza e la miseria. Se leggo Luigi Meneghello sento grande sapienza filologica, ma non trovo questa verità».
Anche il grande poeta trevigiano Zanzotto ha questo limite?
«Mah, ho visto che Cesare De Michelis (presidente della Marsilio, ndr) parla di “zanzottismo” per riferirsi alla descrizione letteraria del Veneto povero. Ma non sono d’accordo, non è così, Zanzotto è su un’altra sfera, più alta».
Villalta racconta di aver avuto esperienze “antipatizzanti” in quanto scrittore del Nordest. Lei?
«Io questa sensazione l’ho sempre avuta, fin da ventenne. Ho fatto il servizio militare a Lecce e mi sfottevano, a Roma e mi sfottevano. Poi in Cadore, da ufficiale degli alpini, erano gli alpini a sfottere i meridionali. Anche adesso se sentono che sono un veneto hanno un’aria di superiorità. Anche nei giornali, ti considerano uno che non conosce il mondo, uno che non ha mangiato la foglia, che non cammina in una metropoli. Ignorando che loro sono nel frastuono, e nel frastuono non senti le parole che contano. Voi siete assordati dal frastuono e noi cerchiamo la parola che resta. Anche per questo non ci capite».
C’è un altro stereotipo sul Nordest: il razzismo.
«Qui c’è un forte contrasto tra un razzismo che c’è e una solidarietà che nel sottofondo è molto estesa. Per cui Treviso, che sembra razzista quando parla Gentilini, è al primo posto per integrazione secondo la Caritas. Il Nordest è questo marasma di aspetti. Ma ce n’è ancora un altro, che non abbiamo detto: la droga. In questo contrasto di mondi e culture, tra generazione dei padri e dei figli, la generazione dei figli è al completo sbando e fa un uso smodato di droghe. La nuova generazione sta rischiando di perdere quello che i padri hanno duramente conquistato».
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