Cultura e Spettacoli

Se la Repubblica di Salò si legge come un romanzo

Non è mai soddisfatta la fame dei media e del pubblico per nuovi retroscena sulla caduta del Duce e sulle losche trame a ridosso della catastrofe finale

Se la Repubblica di Salò  si legge come un romanzo

Non è mai soddisfatta la fame dei media e del pubblico per nuovi retroscena sulla caduta del Duce e, ancor più, sulle losche trame a ridosso della catastrofe finale. Tiene sempre viva l’attenzione di giornalisti e storici la domanda cui non si è mai data risposta convincente di quali motivazioni, strategie, piani si sostanziò la condotta dei gerarchi di Salò una volta posti di fronte al dramma del fallimento del loro progetto di reincarnare il fascismo delle origini. Si è molto parlato del cosiddetto «ridotto della Valtellina», ossia del progetto coltivato soprattutto da Pavolini di organizzare un’estrema difesa a ridosso delle Alpi lombarde in modo da lasciare ai posteri una gloriosa testimonianza di cosa erano stati capaci i «duri e puri» di Salò. Non minore interesse ha sempre destato un altro progetto, molto chiacchierato ma mai indagato a fondo, che avrebbe animato lo stato maggiore della Rsi in punto di morte: quel ponte che, da parte in particolare di Mussolini, si tentò di lanciare verso il postfascismo offrendo una disponibilità dei «neri» alla riconciliazione con i «rossi».
Molti, ricercatori o presunti testimoni, hanno sfornato rivelazioni sulle manovre, i conciliaboli, le trattative consumate dall’agonizzante fascismo repubblicano in quel torno di tempo. Stefano Fabei con I neri e i rossi. Tentativi di conciliazione tra fascisti e socialisti nella Repubblica di Mussolini (Mursia, pagg. 377, euro 22) ha cercato di fissare almeno un punto fermo sulla questione. È una matassa complicata e difficile da dipanare sia per la segretezza in cui si tennero i contatti sia per la ritrosia dei protagonisti a parlarne a guerra finita sia anche per la sovrapposizione di diversi, contrastanti propositi che coltivavano i morituri. C’erano, infatti i vari Pavolini, Mezzasoma, Farinacci che vivevano come un’abiura il possibile inciucio con gli odiati nemici. Sul fronte opposto si ponevano i realisti (come Pettinato, Pini, Gray) che si proponevano di giocare di rimessa offrendo ai vincitori una versione corretta in senso democratico e pluralista del fascismo, pur di non scomparire e, personalmente, di salvare la pelle.
C’erano, infine, i più giovani, decisi a trovare un solido ancoraggio culturale al loro fascismo, attingendo anche al modello nazista, per ritagliarsi un ruolo di opposizione irriducibile al mondo moderno voluto dai vincitori. Abboccamenti ci furono tra neri e rossi ma non portarono a nulla. Il «ponte» lanciato oltre l’incombente sconfitta, motivato da sincera volontà di conciliazione (improbabile) o da una perfida manovra tesa a collocare «un uovo di vipera nel nido di chi sarebbe venuto dopo» non conta.

Resta comunque una pagina intrigante della drammatica caduta del fascismo che vale la pena di chiarire.

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