Sei anni di galera ai terroristi della porta accanto

Si fingevano integrati, minacciavano Milano e volevano colpire una base Nato

Cristina Bassi

Milano «Vivono con noi, hanno il permesso di soggiorno e un lavoro regolare, sono incensurati. Il fatto di essere perfettamente integrati nella nostra società li rendeva ancora più pericolosi»: l'analisi è della Procura di Milano, al processo contro due presunti jihadisti che abitavano nel Bresciano. Ieri il pakistano 27enne Muhammad Waqas e il tunisino 35enne Lassaad Briki sono stati condannati a sei anni di carcere per terrorismo internazionale dalla corte d'assise di Milano. I giudici presieduti da Ilio Mannucci hanno anche disposto che gli imputati vengano espulsi dall'Italia a pena espiata.

I due stranieri sono stati arrestati lo scorso 22 luglio. Secondo le indagini della Digos milanese coordinate dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dal pm Enrico Pavone, avevano aderito all'Isis. Nelle intercettazioni parlavano di obiettivi da colpire in Italia con attentati terroristici, dalla base militare Nato di Ghedi, vicino a Brescia, alla metro di Milano. Avevano anche postato su Twitter «selfie» di propaganda a nome del Califfato con le foto di luoghi simbolo come il Duomo di Milano e biglietti con la scritta: «Siamo tra voi, nelle vostre strade, armati. Vi colpiamo in qualsiasi momento».

Nella requisitoria pronunciata ieri mattina nell'aula bunker davanti al carcere di San Vittore (alla fine della quale sono state chieste le condanne a sei anni) i pm hanno ricostruito le accuse. Waqas e Briki sarebbero due aspiranti foreign fighter - stavano per partire per la Siria - e «lupi solitari pronti all'azione in Italia». Ecco Briki in un'ambientale: «Questo ha un senso, entrare in una base militare, una bella botta. Entro nella tua casa e faccio qualcosa... Tu mandi l'aereo e ammazzi i bambini? Io vengo da te, magari con 100 euro, e ammazzo. Anche uno basta. O abbatto un aereo». Waqas scarica da internet, e poi passa all'amico, il manuale How to survive in the West (Come sopravvivere in Occidente), una «guida per mujaheddin». Dal contenuto, ha spiegato Romanelli, «terroristico puro, che da quel giorno è diventato la loro regola di vita. Si tratta di un manuale operativo per chi nei Paesi occidentali fa la jihad secondo i precetti dello Stato islamico». I diversi capitoli indicano come costruire bombe, come nascondere la propria identità, come «mimetizzarsi» in Italia. «Mi taglio la barba e mi faccio i piercing», programmava uno dei due imputati. E ancora: «Il kalashnikov non ce l'ho. L'ho cercato, ma non c'è più tempo. Il momento migliore per fare la jihad e il ramadan». Anche se prima, ragionavano il pakistano e il tunisino, è meglio andare in Siria a fare l'addestramento.

I difensori dei due stranieri, gli avvocati Luca Crotti e Vittorio Platì, chiedendo l'assoluzione hanno sottolineato come non ci sarebbero prove della loro appartenenza all'Isis e come non fossero in possesso né di armi né di esplosivi: dai due amici solo parole e nessun atto concreto. «È innocente, non ha fatto nulla», ha detto in lacrime la sorella di Briki che era in aula.

«Sei anni sono una pena troppo alta - ha concluso Crotti - tra le più severe mai applicate per questi reati».

Commenti