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La serialità come opera d'arte Il mondo pop di Andy Warhol

Un'esposizione "totale" con oltre 200 pezzi che raccontano la sua multiforme produzione, dalla grafica al cinema

La serialità come opera d'arte Il mondo pop di Andy Warhol

Gallarate. Camaleonte per necessità di piacere, insicuro e caparbio, affamato di soldi e di fama, insoddisfatto ed eclettico, conservatore e rivoluzionario: Andy Warhol (1928-87, all'anagrafe Andrew Warhola, cognome di origine slovacca) con tutte le sue contraddizioni segna un prima e un dopo nella storia dell'arte moderna.

Così facile in superficie, così complesso a guardar meglio, così pop da diventare concettuale. È stato il primo a spazzar via, con una colata di colore fluo e inchiostro su tela, il concetto di autenticità e di unicità di opera d'arte. La rivoluzione warholiana nella rappresentazione dice che tutto ciò che ci passa davanti agli occhi (una zuppa in scatola, dei fiori, una mucca, un volto) può diventare artwork se opportunamente destrutturato, decontestualizzato, ripetuto in serie e colorato in modo imprevisto. A novantacinque anni dalla nascita del campione dell'«arte a consumo di massa», con quotazioni alle stelle sul mercato (un lavoro della toccante serie Death and Disaster è stato battuto in asta recentemente per 85 milioni e mezzo di dollari), con un numero di mostre e pubblicazioni superate solo dai gadget (magneti, cartoline, poster, t-shirt) ispirati ai suoi lavori, che altro ancora c'è da dire su di lui? Abbiamo trovato una ipotesi di risposta al museo MAGA di Gallarate: qui, in un allestimento warholiano (carta stagnola ovunque alle pareti, come si usava nella Factory) su cinquemila metri quadrati, Maurizio Vanni e Emma Zanella, i curatori, hanno selezionato oltre duecento opere-icona e diversi di film d'artista accanto a una serie di cover di vinili e stampe per la grande mostra Andy Warhol. Serial Identity (dal 22 gennaio al 18 giugno, poi in estate si sposterà nella Repubblica di San Marino).

Emergono, sala dopo sala, tutti i talenti di Warhol e, insieme, tutte le sue contraddizioni. Inguaribilmente timido, incapace di parlare in pubblico e insicuro del suo aspetto minuto, Andy Warhol approda giovanissimo dalla Pennsylvania a New York puntando sul suo dono più grande: il disegno. Commuovono nelle prime sale in mostra gli schizzi in bianco e nero (i gatti, le scarpe) che gli valgono presto un lavoro nella grafica pubblicitaria e un discreto successo (il New York Times gli affida una rubrica settimanale). Poteva bastargli? Ovviamente no, ed ecco che s'inventa una tecnica nuova: sporca i disegni con macchie di inchiostro e colori improbabili e conquista il mercato dell'arte. Warhol è bravo nel business: si arricchisce in fretta, ma i soldi non placano la sua ansia. In perenne ricerca di approvazione e del proprio posto nel mondo (sono gli anni lo testimoniano le foto esposte al MAGA - in cui cambia look forsennatamente), sperimenta tecniche diverse fino alla svolta decisiva: con la serigrafia fotografica inventa ufficialmente il «pop» made in USA. Prende oggetti comuni e li propone in serie, con improbabili colori fluo: fonda il concetto di «multiplo originale» (una contraddizione in termini, se ci si pensa). Scaltrissimo, sfrutta l'immagine di Marylin Monroe all'indomani della morte e la trasforma in un'iconica al cubo: del suo volto tratto dalla fotografia pubblicitaria del film Niagara realizzerà, ossessivo, duemila esemplari in due anni (in mostra a Gallarate vediamo alcuni dei più belli). Nel frattempo, la Factory, il grande studio aperto nel '63 sulla 54esima strada, diventa una «nuova» bottega rinascimentale, aperta a ogni sperimentazione. Da qui passano Keith Haring e Basquiat, da qui escono, in collaborazione con svariati artisti e musicisti, copertine di vinili, poster, libri, film d'artista: Warhol, «un voyeur esistenziale, più profondo di quanto avrebbe voluto essere» (la definizione è del curatore Maurizio Vanni) si sente un regista. Nella sezione finale della mostra possiamo vedere alcuni dei capolavori del genere: la pellicola Empire, otto ore e cinque minuti di girato dell'Empire State Building dal tramonto all'alba e il conturbante Kiss, una ripresa di quasi un'ora di baci tra coppie etero e omosessuali. Per la prima volta in Italia, in una saletta che ipnotizza, viene presentata la videoinstallazione del regista Ronald Nameth che riprese Warhol mentre, con i Velvet Underground e Nico, compiva una performance tra musica, teatro e luci che sembra, ancora oggi, venire dal futuro. E se al Terminal 1 di Malpensa, in collaborazione con Meet Digital Culture e Sea, un'installazione offre ai viaggiatori vivaci spezzoni dell'Andy Warhol TV in onda negli anni Ottanta, al MAGA troviamo le serie più note (come Flowers, rassicuranti solo in apparenza: per Warhol l'ibisco segna la caducità del tempo), i ritratti delle celebrità, da Mao a Jackie Kennedy, la straziante serie Death and Disaster in cui scodella con crudezza l'orrore della pena di morte che l'America del tempo non disdegnava di trasmettere in tv. Warhol porta in superficie il sogno americano della ricerca della felicità (o dei 15 minuti di celebrità?) e al tempo stesso lo condanna, elogia l'apparenza ma pratica la riflessione pensosa, instillando in chi osserva l'arte del dubbio: è realtà o finzione ciò che ci propone? Campione del Pop sedotto dall'Altrove (una delle sue ultime opere, prima di morire dopo un intervento troppo a lungo rimandato alla cistifellea, è Last Supper, rifacimento dell'Ultima Cena di Leonardo ammirata a Milano), Andy Warhol resta un enigma.

Finalmente una mostra ha il coraggio di dirlo.

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