«Via della Seta» il prêt-à-porter della geopolitica

La Via della Seta ci fa camminare con la fantasia per mondi meravigliosi dove il lusso e la violenza, la sensualità e la miseria sono circonfusi dal profumo intenso di fiori e frutti esotici, delle spezie, delle droghe. Per quella via immaginiamo ancora l’esercito di Alessandro Magno, le carovane di Marco Polo, i cavalieri di Gengis Khan o di Tamerlano. E poi città misteriose e affascinanti come Samarcanda, Bukhara, Tashkent. Un mito geografico in cui non mancano draghi e principesse, città d’oro e accampamenti nel deserto sconfinato, eroi e predoni rievocati nella lasciva voluttà della seta.
Tra il I secolo avanti Cristo e il XV i carovanieri che dall’Asia all’Europa e viceversa trasportavano le loro merci, formavano in realtà una rete di comunicazioni, in cui circolavano idee politiche e filosofiche, religioni, tecniche artigianali, strategie militari. La seta, però, era la merce più preziosa, se non sotto il profilo strettamente venale, certamente per le suggestioni culturali che essa implicava. Il suo segreto di fabbricazione era custodito dai cinesi, e infiniti furono i tentativi di appropriarsene, originando, forse, il primo caso di spionaggio industriale della storia.
L’espressione «Via della Seta» è, tuttavia, recente. Si deve al geografo tedesco Ferdinand von Richthofen che nel 1877 così nominò quel complesso e variabile tracciato commerciale che collegava l’Est all’Ovest. Ma l’espressione ebbe poca fortuna fra i suoi contemporanei. Essa si impose negli anni Sessanta del secolo scorso e divenne perfino occasione di una banalizzazione quando negli anni Ottanta un progetto interculturale dell’Unesco volle celebrare l’espressione «Vie della Seta» con una più adeguata al politically correct contemporaneo «Vie del Dialogo».
Oltre i sogni di mondi fantastici, al di là della letteratura, dei traffici, dei viaggi, della comunicazione politicamente corretta, la Via della Seta indica un asse preciso attraverso il quale si sviluppavano i rapporti culturali dei popoli dell’Eurasia. Un cammino che nel corso del tempo è divenuto sempre meno importante, sostituito da altri percorsi: prima quelli tracciati dalla navigazione per l’Oceano Atlantico, poi per il Pacifico. E, inevitabilmente, altri popoli, altre filosofie, religioni, merci diventavano centrali e determinanti nella vita culturale ed economica del pianeta. Così, anche la Via della Seta, sostituita dalle rotte oceaniche, perdeva d’importanza strategica e ritornava confinata nel nostro immaginario esotico.
Recentemente sono usciti una serie di libri proprio su La Via della Seta. Questo è esattamente il titolo di un volume di Édith e François-Bernard Huyghe (Lindau), preceduto da quelli di Colin Thubron, Ombre sulla via della seta (Ponte alle Grazie), di Peter Hopkirk, Diavoli stranieri sulla Via della Seta (Adelphi) e, dello stesso autore, il celebre Il grande gioco (Adelphi).


Perché tanto interesse? Solo il piacere di raccontare ancora una volta le strade avventurose di Gengis Khan e Tamerlano? Si tratta invece di libri che testimoniano il cambiamento delle attuali strategie geopolitiche: la Cina oggi è al centro delle attenzioni economiche e culturali del pianeta, i rapporti commerciali con quel Paese rappresentano un problema da risolvere quotidianamente, la rete di relazioni con l’Asia non passa attraverso gli oceani, ma per l’antica Via della Seta, restituendo un’importanza decisiva alle regioni euroasiatiche. E così, di nuovo, per quelle strade camminano idealmente le carovane del veneziano Marco Polo, prendendosi la rivincita sulle navi del genovese Cristoforo Colombo, arenate sulle secche della crisi economica americana.

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