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"Siamo tutti imperfetti. Ed è questa la nostra forza"

È il titolare dell'unica cattedra italiana di Filosofia biologica: «Il cervello umano? È diviso in due. E per capirlo serve ancora Darwin»

"Siamo tutti imperfetti. Ed è questa la nostra forza"

Il filosofo ed evoluzionista Telmo Pievani, classe 1970, è il titolare dell'unica cattedra italiana di Filosofia delle Scienze Biologiche, all'Università di Padova. Abita sui colli di Città Alta, a Bergamo, dove è nato, anche se viaggia costantemente intervenendo a dibattiti e convegni legati al tema dell'evoluzione umana. Al suo attivo, una montagna di libri, alcuni dai titoli provocatori (Il maschio è inutile, La fine del mondo, Nati per credere). C'entra Darwin in tutto questo? Eccome. Uno degli obiettivi della sua disciplina è proprio quello di capire come una popolazione cambi in un ambiente che a sua volta si modifica. Vengono così ricostruite le cause e le traiettorie dei processi di trasformazione.

Lei lavora nel dipartimento di Biologia. Cosa ci fa un filosofo tra gli scienziati?

«I miei colleghi, genetisti, biologi, esperti di biotecnologie, sentono sempre di più la necessità di interpretare quello che fanno. Per riuscirci sono però necessarie quelle categorie filosofiche ed etiche che a loro sfuggono, visto che hanno una formazione diversa. È giusto che in mezzo agli scienziati spunti un filosofo e spii il loro lavoro.»

Dunque il suo mestiere è far dialogare la Filosofia con le Scienze Biologiche.

«Credo che l'interazione fra scienza e filosofia sarà sempre più forte. Anzi, dovrà esserlo. Un tempo i grandi scienziati si chiamavano filosofi della natura, e si ponevano le stesse domande sulle verità e sul cosmo sollevate dai filosofi. Poi c'è stata una divaricazione. Adesso il pendolo sta tornando nella posizione del dialogo tra scienza e filosofia e questo per tante ragioni. Anzitutto perché la scienza è pervasiva nelle sue ricerche e nel modo di cambiarci la vita, pensiamo alla biotecnologia, quindi è naturale che nascano domande di ordine etico e filosofico».

Del tipo?

«È giusto cambiare l'identità genetica nostra e delle piante? Dove ci porta il riscaldamento climatico? Qual è il nostro posto nel mondo?».

Lei che formazione ha?

«Ho fatto il liceo classico, il Sarpi di Bergamo. Poi mi sono orientato verso la Fisica, scelta che si è rivelata fallimentare. Mi è servito però a capire che dietro a questo interesse c'era quello filosofico. Così sono passato a Filosofia della Scienza alla Statale di Milano. Mi sono laureato con Giulio Giorello. Arrivato a un passo dalla tesi, ho conosciuto i libri di Stephen Jay Gould. Sono andato da Giorello dicendo che volevo fare una tesi in filosofia della biologia. Fu lui a mandarmi da Gould e da Niles Eldredge a New York, lì mi sarei poi specializzato con ricerche di dottorato e post-dottorato in biologia evolutiva e filosofia della biologia. Ecco spiegato lo strano ibrido tra filosofia e scienza».

Ma da studente, se la cavava meglio in Filosofia o in Scienze?

«Fermo restando che ero appassionato di latino e greco, andavo bene in entrambe le materie, tanto che dopo la maturità ero in bilico tra filosofia e studi scientifici. Anche per questo pensai di occuparmi allo studio teorico della scienza».

Siamo nell'epoca della disinformazione emozionale. A partire dalla politica, si parla alla pancia, rispondendo a istanze istintive. Come lo spiegate voi evoluzionisti?

«Partiamo dalla conformazione del cervello, che è composto da parti vecchie e parti nuove. Le antiche sono legate all'emotività, all'istinto, e sono molto reattive, veloci. Sono le aree fondamentali che garantiscono la sopravvivenza perché è lì che vengono prese le decisioni al volo. Poi vi sono le parti corticali, superficiali, quelle della razionalizzazione, legate al linguaggio e all'astrazione. Quando ragioniamo c'è una dialettica fra parti antiche e nuove. Non che la parte antica vada demonizzata, però si rischiano conseguenze deleterie se a fronte di un problema complesso si usano le parti basali mentre sarebbe richiesto un lavoro intellettuale sofisticato».

Facciamo degli esempi.

«Riporto gli esiti di un esperimento fatto in America. Volti di persone di etnie diverse sono stati proiettati su uno schermo e mostrati a un gruppo di persone: ad afroamericani sono stati mostrati volti di bianchi e a bianchi volti di afroamericani. Si è mappato il tutto per capire cosa succede nel cervello. Vedere un volto dai tratti somatici diversi rispetto al proprio fa subito scattare il senso di minaccia del diverso, entra infatti in azione la parte antica del cervello. Dopo questo primo impatto, però, subentrano le parti corticali che annullano la minaccia. Quando sono stati proiettati volti di personaggi famosi, Obama per dire, non è stata avvertita nessuna minaccia poiché il viso risultava già famigliare. Per dire che la cultura può far leggere persone o situazioni come nemici o come affini».

Quanto è ancora attuale Darwin?

«È stato rivoluzionario nel capire che ogni individuo è unico. In nessuna specie trovi qualcuno uguale all'altro. La sua è stata un'idea rivoluzionaria perché ha fatto capire che non ci sono standard che valgano per tutti, la regola è la diversità. Il singolo è portatore di diversità e le differenze sono il combustibile del cambiamento: oggi come ieri. Fu poi rivoluzionaria l'idea di evoluzione delle specie da intendersi come un processo contingente, imprevedibile, non finalistico. Idea che fatichiamo ad accettare, perché noi speriamo che in tutto ci sia un fine, un disegno intelligente. Darwin dice che il futuro è aperto, non ci sono né Dio né una fortuna alla Machiavelli: c'è solo la responsabilità».

A proposito di responsabilità: l'uomo e la natura?

«Oggi viviamo sfidando la natura. A partire dal campo dell'economia dove si vuole una crescita infinita. Ma la natura insegna che quando qualcosa cresce è perché qualcos'altro decresce. Noi umani apparteniamo a una specie ambivalente, siamo capaci di opere d'arte sublimi, di storie che nessun animale si sogna. Però siamo anche unici nelle capacità distruttive. La nostra strategia di sopravvivenza è quella di cambiare l'ambiente per renderlo adatto a noi, e non viceversa».

La cultura tecnologica quanto sta influenzando l'evoluzione?

«L'evoluzione tecnologica è prorompente. Anche solo cinque anni fa non potevamo immaginarci gli attuali strumenti per modificare il Dna».

Pessimista? Preoccupato?

«L'uomo se l'è sempre cavata. Magari all'ultimo, ma se la cava».

E come la mettiamo col fatto di essere tutti connessi?

«Veniamo da anni di grande ottimismo digitale, con la rete si condividono informazioni, si parla di intelligenza collettiva. È vero anche che nella rete si stanno riproducendo anche dinamiche tribali, si riformano le tribù».

Perché lei non fa uso di social media?

«Ho paura che mi rubino tempo. Sono abituato a mettere tutto in discussione, mentre i social sono pieni di certezze, tutti hanno opinioni e convinzioni. Non ci sono più sfumature. Tutti convinti. Poi mi inquieta la violenza verbale».

Però ha figli adolescenti. Loro sono sui social?

«Certo, e come genitori siamo quindi alle prese con questa situazione. Non ho ricette: cerchiamo di contingentare gli orari».

Come si è evoluto il cervello? Com'è il cervello dell'ultima generazione?

«C'è una ricerca bellissima uscita in Francia. Si è visto che i cervelli di persone che hanno imparato a leggere due o tre lingue fin da bambini sono biologicamente scolpiti in modo diverso. Tutto lascia pensare che un figlio nativo digitale avrà un cervello fisicamente diverso dal mio. Nel corso della storia abbiamo inventato tecnologie e quindi i nostri cuccioli-figli sono diventati di volta in volta nativi di nuove tecnologie, dunque le tecnologie hanno contribuito a scolpire diversamente il loro cervello».

In cosa differiscono?

«Ora i ragazzi hanno più competenze e abilità multitasking, in compenso è andata diminuendo la capacità di concentrazione. Ora è tutto più spot, più frammentato, lo vedo anche tra i miei studenti».

Cosa che dovrebbe essere presa in considerazione dalla didattica.

«È una questione di integrazione di vecchi e nuovi strumenti. Lo stesso discorso per i giornali. Non credo che tutto finirà sul digitale, semplicemente ci saranno più canali».

Lei studia su libri digitali o cartacei?

«Cartacei, perché fatico a memorizzare sul digitale. Il mio cervello non si è riconvertito».

L'ultimo suo libro tratta dell'imperfezione. Perché evoluzione non significa andare di bene in meglio.

«E neppure spingere un processo in direzioni più positive di altre. Noi siamo il risultato di una serie di imperfezioni che hanno avuto successo. Sono le strutture imperfette a farci capire in che modo funziona l'evoluzione: non come un ingegnere che ottimizza sistematicamente le proprie invenzioni, ma come un artigiano che fa quel che può con il materiale a disposizione, trasformandolo con fantasia, arrangiandosi e rimaneggiando. Io per primo non sono interessato alle cose perfette perché lì è già successo tutto. Studio l'imperfezione perché è lì che c'è il cambiamento».

E noi italiani siamo campioni nell'arte dell'arrangiarci, nell'adattabilità e plasticità, che sono poi le strategie primarie di sopravvivenza.

«È vero, è tipico del nostro spirito. Sappiamo utilizzare la materia a disposizione per nuove funzioni. Il nostro è il Paese della sapienza artigianale, delle mani intelligenti, abbiamo un tipo di intelligenza diversa da quella regolata e quantitativa, noi siamo qualitativi. Non abbiamo l'intelligenza muscolare, ma l'esprit de finesse, basta vedere ai convegni internazionali: sappiamo fare domande giuste, con apertura mentale».

L'evoluzione è relazione, impresa collettiva. Conta l'ecosistema. Oggi l'Italia è l'ecosistema di?

«Bellezza e scienza. La scienza è il nostro petrolio, un giacimento a nostra disposizione. Peccato che da parte della politica ci sia insensibilità verso questo patrimonio. Basterebbe investire poco e il ritorno sarebbe alto. I Paesi che stanno uscendo meglio dalla crisi sono quelli che investono sulla ricerca».

Fra libri e paper, ha scritto più di duecento testi. Dove trova il tempo per lo studio e la scrittura?

«Non ho mai smesso di studiare, quindi col tempo ho costruito delle tecniche mnemoniche. Lavoro tantissimo, non ho orari. Ma soprattutto lavoro con grande intensità, cosa che ho imparato ai tempi del liceo».

Ha lavorato assiduamente con il genetista Luigi Cavalli Sforza. Un privilegio.

«Come Darwin, aveva una curiosità interdisciplinare, a lui interessavano le domande di ricerca a prescindere dalla disciplina di appartenenza. Ora migliaia di ricercatori lavorano sulle sue intuizioni. È stato un modello di libertà di pensiero. Un pioniere. Nella scienza bisogna buttarsi dove vedi che non c'è nessuno, ed è quello che fece lui. Fa parte della generazione di scienziati che fra gli anni Settanta e Ottanta fecero capire che comunicare la scienza in modo trasparente e democratico è un impegno che ogni scienziato deve considerare connaturato al proprio mestiere. Anzitutto per una questione di fiducia: se io scienziato non ti dico quello che sto facendo, ingenero sospetto. È stato un maestro straordinario che ingiustamente non ha avuto il Nobel, premio che del resto raramente viene attribuito agli italiani».

Affrontiamo il tema del Nobel, o meglio dei mancati Nobel agli italiani.

«Quando vedi un Nobel mancato pensi a un caso, ma quando diventa sistematico, allora c'è una ragione».

Lobbying?

«Diciamo che vi sono Paesi come gli Usa che sono bravi a coalizzarsi e a fare pressioni. Questo fa sì che le candidature siano valutate di più. Dovremmo unirci anche noi.

Fare sistema e farci sentire».

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