Controstorie

La signora della moda che resuscita gli abiti delle vittime di Pol Pot

Faceva il lifting ai vestiti dell'aristocrazia, ora con ago e filo vuol ricucire le ferite di un Paese

Massimo M. Veronese

I macellai di Pol Pot avevano vent'anni e venivano dalla campagne, spaccavano la testa ai ragazzini di città colpevoli solo di avere gli occhiali. Perché portarli, peccato mortale, li faceva persone istruite e sapere le cose era una minaccia per il regime. Insegnanti, medici, studenti, impiegati, chiunque avesse studiato veniva imprigionato e giustiziato sul posto. Il progetto politico di Pol Pot, lo Stalin cambogiano, era quello di far regredire il Paese allo stato primitivo, contadino, basato sul baratto e sulla condivisione forzata, ma per imporre il suo comunismo medievale bisognava ricominciare da zero: zero industrie, zero scuole, zero libri, zero denaro. I khmer rossi strappavano occhi, segavano mani, lanciavano in aria i neonati delle loro vittime e poi li infilzavano con le baionette. Nel nome della fratellanza universale, della democrazia proletaria e del sol dell'avvenire maoista. La Cambogia del Terzo Millennio è un Paese che sembra uscito dagli incubi di Orwell, un Paese dove 40 anni dopo la grande carneficina, i boia, i familiari delle vittime dei boia e i sopravvissuti ai boia vivono uno accanto all'altro, indifferenti a se stessi, come se il rancore, la rabbia e l'orgoglio appartenessero solo a chi non c'è più, come se la giustizia non sia di questa terra. In tre anni di purghe, dal 1976 al 1979, un cambogiano su tre fu ucciso dai rossi, un milione e ottocentomila persone, altri morirono di fame o di malattia, un Paese fu ridotto all'osso e non soltanto metaforicamente. Nessun processo, nessuna guerra civile, nessun regolamento di conti, nessuno che ha chiesto scusa a nessuno. Solo nel 2010 il tribunale cambogiano sotto l'egida delle Nazioni Unite ha condannato il «comandante Duch», Kaing Guek Eav, l'Himmler di Pol Pot, a 35 anni di carcere per crimini contro l'umanità. Non era mai successo prima.

Choeung Ek, 15 chilometri a sud di Phnom Penh capitale, era l'Auschwitz dei khmer. Da lì sotto sono stati riesumati novemila corpi, niente rispetto a quelli rimasti sepolti nelle fosse comuni. Qualcosa viene fuori quando piove forte: ossa, vestiti, resti umani. Sono gli internati della prigione S-21, le urla del silenzio di persone comuni, soldati disobbedienti, innocenti qualunque. Quando arrivò qui l'esercito vietnamita i corpi degli ultimi torturati erano ancora legati alle brande dei supplizi, accanto a loro gli arnesi del mestiere trapani, seghe, tenaglie, fiamme ossidriche, picozze.

Tuol Sleng è un monumento nazionale, una cripta di cristallo piena zeppa di teschi, un museo dell'Olocausto, l'unico posto che qui abbia una memoria, l'unico posto dove i morti chiedono conto ai vivi. Era una scuola, Tuol Sleng, che i khmer rossi trasformarono in un centro di torture, oggi decine di pannelli raccontano attraverso le foto delle vittime, i 17mila prigionieri sterminati in questo posto. Julia Brennan vive in questo tempio della morte, lei che è stata lontana da qui decine di mondi. È la Coco Chanel del restauro tessile, fa il lifting agli abiti di pregio, ha strappato per sempre all'usura del tempo il guardaroba di attori e cantanti di fama mondiale e dell'aristocrazia di mezzo mondo. Abiti di firma che costano come un monolocale, pezzi di storia da consegnare alla leggenda, la divisa di Babe Ruth, icona del baseball americano, la tuta di scena di James Brown, i vestiti di principi e principessa battezzati dalle incoronazioni. Ha 59 anni, è nata da genitori americani in Indonesia, il padre che insegnava all'università, ha lavorato per la Casa Bianca anche a progetti di controllo degli armamenti. Non è la prima volta per Julia, anche se è figlia del glamour. In Ruanda, dove gli scontri etnici hanno portato allo sterminio di 800mila persone nel 1994, ha lavorato al Museo della memoria e alla conservazione dei vestiti delle oltre 10mila persone massacrate nella chiesa di Nyamata. L'ha voluta lì il governo americano stanziando 55mila dollari, attraverso la sua ambasciata di Phom Phen, per una missione di recupero che ha del mistico: resuscitare gli abiti delle vittime dell'olocausto rosso, ridare quasi corpo a quei visi appesi alla parete. Spiega: «Non sempre ci si commuove davanti al teschio di chi non c'è più. Ma se ti trovi di fronte a un maglione o a una gonna che sembrano quello di tua madre le cose cambiano».

Cosa che capita al Museo di Auschwitz-Birkenau e a quello della Shoah di Washington, dove sono conservati uniformi, occhiali, scarpe, scialli da preghiera ebraica degli ebrei deportati. L'abito ti mette nei panni di chi muore più dello sguardo che ti fissa dalla foto. Ce ne sono 5mila conservati nei magazzini di Tuol Sleng e Julia li sta lavorando uno per uno, insieme a un piccolo, appassionato staff che sta formando sul posto. Ha realizzato un sistema di «microclimi» che consentono di conservare gli abiti e di dare loro un effetto di grande naturalezza. «Perché i ricordi tornino alla memoria - la sua spiegazione - bisogna che la maglia non abbia un aspetto troppo liso». Su quegli abiti ci sono le ferite, la paura, il dolore, passate al setaccio come su Csi, la ricostruzione scientifica di una vita sconosciuta che non c'è più. L'attenzione è concentrata sullo sporco e sugli insetti, sono loro che possono rivelare informazioni su quello che successe in quel mattatoio. Khuo Chenda e Kong Kuntheary, allievi di Julia, sono orgogliosi di recuperare anime attraverso gli abiti: «Anche perché se diventano troppo logori le prove vanno via e quando racconterai quest'orrore alle nuove generazioni nessuno ti crederà» dice il primo. E l'altro: «Gli abiti sono la nostra memoria, dobbiamo assicurarci che nemmeno tra cento o duecento anni spariscano».

Il futuro qui è ritrovare il passato.

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