La sinistra che dimentica gli italiani rapiti in Africa

Si rassegnino gli orfani di Nanni Moretti: per ascoltare «qualcosa di sinistra», ormai devono far parlare lo sport. Mentre il progressismo italiano si dilania tra le polemiche sui Dico, sulla riforma elettorale, sull’Afghanistan, tocca ai calciatori ricordare sul campo la sorte di due lavoratori italiani, «colpevoli» solamente d’essere stati rapiti in Africa, e dunque in quel Sud del pianeta che da anni non fa più notizia. Come d’altronde non la fa l’altro Meridione latino-americano: quante e quali mobilitazioni in Italia hanno mai provocato i rapimenti di connazionali e figli di connazionali in Venezuela?
Per fortuna i giocatori dei campionati nazionali, esibendo quella maglietta al plurale («liberateli»), hanno ricordato ai distratti anche le storie di Francesco Arena e Cosma Russo, i dipendenti dell’Eni che da più di tre mesi sono nelle mani della guerriglia in Nigeria. Ostaggi in attesa di una liberazione che non arriva, e sui quali rischia di calare l’oblio.
Eppure, da tempo avremmo dovuto capirlo: il pericolo di finire nelle mani di bande armate in lotta per le più disparate ragioni contro i propri governi - e perfino contro il governo «planetario» imputato agli Stati Uniti -, è una realtà che gli occidentali non possono più sottovalutare; dall’Oriente medio o estremo al Sud del mondo, dalle aree vicine che richiamano il turismo di massa a quelle lontane che catturano l’interesse economico di poche multinazionali. L’insidia s’annida ovunque, e allora identica per tutti dovrebbe essere la risposta da dare al momento del bisogno. Soprattutto la risposta di chi, in Europa, smuove per tradizione politica e teorico spirito di eguaglianza anche le impigrite opinioni pubbliche, oltre che le dormienti istituzioni. Toccherebbe naturalmente a tutti mobilitarsi. Ma tocca innanzitutto alla sinistra, abituata per storia ai cortei e paladina dei lavoratori per antonomasia, il «dare la sveglia».
Certo, il moltiplicarsi dei sequestri dappertutto contribuisce alla nostra sempre più fatalista disattenzione, contribuisce alla mancanza di una consapevole reazione per delle vicende che ci appaiono - ma che non sono - «minori». Ma non si può pensare che la soluzione di queste ingiustizie passi soltanto attraverso l’azione della diplomazia e delle pur attive «unità di crisi». È il Paese tutto che si deve scuotere.
Fra tante proteste fatte e annunciate per le più svariate cause, il progressismo di piazza, il pacifismo pronto a marciare «contro l’oppressione», la sinistra dei candidi ideali e delle anime belle stenta a fare una priorità assoluta di questi dimenticati. Quasi che oggi non bastasse più essere dei «lavoratori», semplicemente dei lavoratori, per scaldare il cuore di una buona battaglia.
f.

guiglia@tiscali.it

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