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"Soldi e amore: il mio primo western"

Il regista racconta come ha lavorato a "Killers of the Flower Moon", ambientato fra i nativi

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Nel mondo della settima arte, pochi nomi risuonano con la stessa profondità di quello di Martin Scorsese. Durante una carriera leggendaria che si estende per decenni, ha donato al pubblico capolavori entrati nella storia del cinema. Il suo progetto più recente, Killers of the Flower Moon, che dopo essere stato presentato a Cannes è da ieri nelle sale italiane, pur confermando il talento e la visione del creatore di Quei Bravi Ragazzi e The Wolf of Wall Street, rappresenta una novità.

La potente trasposizione cinematografica dell'omonimo bestseller del 2017 scritto da David Grann, ha spinto il filmmaker nato a New York nel 1942 e cresciuto fra le strade di Little Italy, a co-scrivere, produrre e dirigere il suo primo film western, o meglio la prima versione scorsesiana di un western. Il tema affrontato è un cupo e poco conosciuto capitolo della storia americana: i misteriosi omicidi dei membri della comunità nativa americana degli Osage in Oklahoma, proprietari di terreni a lungo ritenuti privi di valore, in cui negli anni '20 furono scoperti diversi giacimenti di petrolio che resero i componenti della tribù fra gli uomini e le donne più ricchi al mondo. Come una calamita, la loro prosperità attirò nella zona a nord ovest di Tulsa diverse persone - soprattutto uomini bianchi che arrivarono non solo per cercare di sottrarre agli Osage i soldi del petrolio, ma per tentare di ereditarli entrando a fare parte delle loro famiglie.

Cambiano l'epoca, i costumi indossati dai personaggi, ma le atmosfere restano quelle, inconfondibili, dei grandi classici del maestro italo-americano. Il cast è composto da altri due premi Oscar, vecchi soci di Scorsese. Leonardo DiCaprio, giunto alla sua sesta collaborazione con il regista, interpreta Ernest, l'americano in cerca di fortuna che si innamora di una ragazza Osage. L'immancabile Robert De Niro, che torna a lavorare con il suo amico di sempre dopo The Irishman del 2019, veste i panni del perfido William Hale. La protagonista femminile è Molly, portata in scena da Lily Gladstone (Billions), attrice realmente cresciuta in una riserva indiana, molto meno famosa dei due colleghi uomini ma altrettanto degna di nota in questa pellicola. Una tragica vicenda che il regista, rinomato per la sua capacità nel gestire narrazioni complesse, ha scelto di raccontare cercando giustizia per il popolo Osage, facendo luce sulle cospirazioni e sugli omicidi che hanno cambiato la storia di un popolo.

Come si è impegnato, insieme al suo team, a fare in modo che la comunità Osage si sentisse degnamente rappresentata?

«Negli anni Settanta ho fatto un'esperienza che mi ha reso consapevole di quella che era, ed è ancora, la situazione dei nativi americani. Quando ero più giovane non ne sapevo nulla. Mi ci sono voluti anni per studiare e capire come trattare la cultura nativa in modo rispettoso e non agiografico. Quanto si può essere sinceri mantenendo l'autenticità, il rispetto e la dignità, quando si racconta la verità? Ho capito subito che questa storia faceva per me. Ho voluto comprendere la cultura Osage, per poter riprodurre i loro momenti spirituali e i loro riti. Ho voluto contrapporre quella dimensione con la cultura dei bianchi europei che abitavano gli Stati Uniti all'epoca».

In che modo l'Fbi fa parte di questo lungometraggio?

«Abbiamo iniziato a scrivere il copione leggendo l'omonimo testo di Grann, il cui sottotitolo originale è: La nascita dell'Fbi. Ai tempi stavamo ancora lavorando a The Irishman. Ci siamo subito detti che avremmo trattato il tema della creazione della Federal Bureau of Investigation, che in questa storia ha un ruolo importante, senza togliere l'attenzione dalla comunità nativa. Questa idea è diventata ancora più chiara una volta che siamo andati in Oklahoma per incontrare gli Osage».

Come è stato il primo contatto con la loro comunità?

«Molto diverso da quello che mi aspettavo, erano naturalmente diffidenti. Ho dovuto garantirgli che sarei stato il più onesto possibile, senza cadere nel cliché del vittimismo o della rappresentazione peggiore dei nativi moderni. Quello che ho capito solo dopo un paio di incontri è che questo per loro non è un evento del passato, ma una cosa ancora attuale. I discendenti delle persone colpite da quegli omicidi sono ancora lì e il sangue degli assassini bianchi, che erano entrati a fare parte delle loro famiglie, spesso scorre nelle loro vene».

C'è anche dell'amore in questa storia tragica?

«Dobbiamo pensare che, nonostante tutto, questi uomini di origine europea si erano integrati nella comunità locale. Erano amici e sono diventati parenti dei nativi. È incredibile come certe persone siano in grado di dividere in compartimenti stagni i sentimenti e la sete di denaro. Dobbiamo ricordare che Ernest, portato in scena da DiCaprio, amava Molly e lei amava lui.

È questa storia d'amore controversa che ha convinto Leo a interpretare il suo ruolo».

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