SOLGENITSIN

Dissidente, testimone, resistente, patriota: con Alexander Solgenitsin nonagenario si è spento un uomo grande e complesso come la sua Russia grande e amatissima e tormentosa. Lo abbiamo ammirato e amato, forse mai interamente conosciuto, così come ci è spesso inconoscibile il suo popolo. Combattè i suoi potenti di ieri che ne stavano distruggendo l’anima, in questo con l’appoggio morale del mondo democratico, combatteva oggi contro i potenti del mondo democratico in difesa della Russia, dei suoi interessi come li vedeva, delle sue tradizioni, della sua cultura, del suo orgoglio di grande potenza umiliata. Fu perseguitato, esule, scampò al Gulag, ma il suo ultimo eroe non era Gorbaciov che avvicinò l’Unione Sovietica all’Occidente e non Eltsin che l’abolì e fece resuscitare la Russia, ma Vladimir Putin, accusato da molti di tendenze restaurative; perché Putin «difende la Russia dall’Occidente» che «mira a distruggere la sua indipendenza».
Sì, lo stesso Solgenitsin. Ha scritto L’arcipelago Gulag e ha presentato di recente in televisione la riduzione filmata de Il primo cerchio, il romanzo che gettò le basi del suo successo mondiale e della sua persecuzione in patria. E ci ha lavorato sodo, soprattutto a spiegare a regista e attori come ricreare l’atmosfera claustrofobica di un campo di lavoro, di un Gulag, quello doveva aveva passato otto anni, dal suo ritorno dalla guerra fino a poco dopo la morte di Stalin nel 1953. Il libro lo pubblicò nel 1968: la cronaca autobiografica di tre giorni dell’esistenza di un gruppo di detenuti politici, segregati in una «prigione speciale». Il primo cerchio dell’Inferno. Una narrazione così densa che sul teleschermo ha richiesto dieci puntate: lunghe come la memoria di un nonagenario aggrottato, la fronte segnata da una profonda ruga verticale che si è approfondita dopo il ritorno. Una faccia austera da XIX secolo, gli occhi azzurri, la barba tolstoiana.
Appunti per la memoria. È il gennaio 1974, di primo mattino, quando il Politburo del Pcus si riunisce apposta per preparare i piani di guerra contro l’intellettuale ribelle. Ci sono tutti quelli della vera nomenklatura. A capotavola Leonid Breznev, che denuncia la pubblicazione dell’Arcipelago Gulag in America e in Francia, come «una sporca calunnia antisovietica, che mina tutto ciò che ci è sacro, da Lenin al Sistema, al nostro potere. Ci sono tutte le basi legali per metterlo in prigione». Nicolai Podgorny ricorda che «in Cina, in casi come questo, ci sono esecuzioni pubbliche». Il primo ministro Kossygin propone di internare lo scrittore a Verkhoyansk, a nord del Circolo polare artico, dove, aggiunge, «fa tanto freddo che nessun giornalista straniero andrà a trovarlo». È il capo del Kgb, Andropov, a trovare la soluzione più «umana»: l’esilio, non senza definirlo «figuro tristo, spregevole, degenerato».
Parole della Pravda, che dice una sua verità. L’anticomunismo di Solgenitsin è totale. Egli si batte per estirpare conseguenze e radici del golpe leninista che passò sotto il nome di Rivoluzione d’Ottobre, una data e un luogo che per Solgenitsin sono stati il fulcro del dolore e della sofferenza del mondo. Può parlare di più e all’inizio l’esilio nutre la sua fama. In Europa, soprattutto in Francia, la sua testimonianza influenza molti, stimola i nouveaux philosophes, ex marxisti come André Glucksmann e Bernard-Henri Levy, a liberarsi dall’egemonia marxista sulla cultura. Nasce un nuovo anticomunismo, ma il suo profeta si isola nel Vermont non perché «assomiglia alla Russia» nel clima ma perché non assomiglia a niente di un mondo che rifiuta: anche l’Occidente, che definisce edonista e intossicato. Non si fa molti amici Solgenitsin in quell’America, a eccezione di un governatore della California che si chiama Ronald Reagan e che lo vuole accanto a sé come copresidente onorario della Hoover Institution, un centro di studi conservatori sulla guerra e la rivoluzione. Ignorato, isolato, lo scrittore passa le sue giornate lavorando. Porta avanti un opera immane, che quasi nessuno leggerà, se non altro per la sua mole. Si chiama La ruota rossa ed è stata l’ossessione letteraria della sua vita. L’aveva concepita già nel 1937, quando era un giovane comunista: la vedeva come un’opera epica. Col passare dei decenni diventa una storia tragica, la narrazione di come l’Unione Sovietica scivolò nel suo incubo.
Finisce di scriverla nel 1991, l’anno in cui scoppia l’Urss. La Russia torna Russia e Solgenitsin, dopo una lunga esitazione, forse troppo lunga, torna in patria. Cerca di riconnettere i fili della sua esistenza laddove essi erano stati tranciati. Attento al dettaglio in quella che è l’esperienza forse più emozionante della sua già lunga vita tumultuosa ed eroica, l’uomo dell’Arcipelago Gulag vuole tracciare una rotta che tocca i porti di un’Odissea e di un’Anabasi al tempo stesso: in aereo dall’Alaska, che è stata terra russa, a un luogo della Siberia che non si incontra sulle carte geografiche dei turisti.
Si chiama Magadan, è l’antico centro di smistamento dei prigionieri del Gulag, dei suoi colleghi morti o comunque meno fortunati e famosi. Di qui a Vladivostok, per abbordare la Transiberiana, rotolando poi verso Mosca sulle ruote di un treno che è anch’esso un posto nella storia dei dolori della Russia. Un viaggio desueto, lento, per riprendere contatto con la realtà e le radici della patria, percorrendo l’intero Paese lentamente, come per riconoscerlo.
E gli è difficile. La morte del comunismo ha disintegrato anche il Dissenso.
Quando era presidente, il ceco Vaclav Havel vestiva jeans e scriveva con passione di Frank Zappa e dei Rolling Stones: Solgenitsin definisce «letame» questa cultura. Ammette che essa è parte integrante dell’Occidente, ma la considera la sua «fogna» e il suo veleno. Il suo dramma è quello di una generazione che ha accumulato una sterminata conoscenza del dolore e del Male e che ora non sa come spenderla, dispersa come si ritrova «in un deserto animato dai McDonald’s e dalla Coca-Cola».
E allora non gli resta che la Russia Eterna, quella della Storia e quella del Mito. E il Mito vive di rivincite: la gloria, le impennate d’orgoglio, la sensibilità nazionale offesa.

Se la libertà umilia la Russia Aleksander Solgenitsin arriva a dubitare della libertà.

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