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"Solo una delle Bestie di Satana è degna del mio perdono"

La setta ha ucciso sua figlia, ma lui per Elisabetta Ballarin ha chiesto la grazia: «Se fossi il padre degli assassini non mi darei pace»

"Solo una delle Bestie di Satana è degna del mio perdono"

Silvio Pezzotta è un gigante. Fiero, coraggioso. Usa le sue mani grandi per gesticolare con garbo mentre parla di cose altrettanto grandi. Ma quando racconta di sua figlia Mariangela - vittima nel 2004 dell'atroce follia delle Bestie di Satana - tiene gli occhi bassi, quasi socchiusi, tentando di sopportare un dolore che, seppur più silenzioso rispetto a 15 anni fa, brucia ancora parecchio.

Gliel'hanno uccisa, la sua Mari, con un colpo di pistola alla testa, l'hanno presa a badilate e nascosto il suo corpo in una serra a Golasecca (Varese).

E lui è riuscito in qualcosa di grandioso, infilando un sentimento buono in una storia che di buono non ha avuto assolutamente nulla. Ha perdonato. «Il perdono è la qualità del coraggioso, non del codardo», ricorda Gandhi in una targa che Pezzotta ha a fianco della sua scrivania, forse il regalo di qualche amico.

Cosa ha spinto un padre distrutto a perdonare Elisabetta Ballarin, che fu condannata a 22 anni di carcere?

«Mi sembrava giusto dare a questa ragazza la possibilità di rientrare in gioco. Quando ha fatto quel che ha fatto aveva 18 anni, un'età in cui si può sbagliare. Degli altri non ho perdonato nessuno. Lei però la conoscevo da bambina. Frequentavo il suo papà Alberto, giornalista, abbiamo fatto anche qualche grigliata dove è successo tutto il casino, nella brughiera tra Somma e Golasecca. Avevamo amici in comune. Era uno sportivo come me».

Capisco ma, mi permetta, non è abbastanza per perdonare.

«Ho fatto il mio solito, ho solo aiutato il prossimo, come ho sempre fatto da ragazzo. Per me non è stata una cosa eccezionale. Ho capito che Betty era l'anello debole della storia, era impasticcata dal mattino alla sera. E quel personaggio là, che non lavorava, l'aspettava fuori da scuola da quando lei aveva 14 anni. L'aveva plagiata».

Quel «personaggio là», Andrea Volpe, lei l'ha visto crescere in casa sua.

«Era un ragazzino, stava assieme a Mari dalle scuole medie. Me lo sono scorrazzato in montagna, al mare. Fino al militare era uno a posto, aveva parcheggiato la moto a casa mia, se la curava, come tutti i ragazzini della sua età, lavorava in un ricamificio della zona. Dopo il militare è cambiato tutto. Ha iniziato con la droga. Gli ho dato una mano per trovare un posto in una cooperativa ma quando l'hanno visto può immaginare la reazione. Poi ho saputo che Mariangela lo portava a prendere il metadone».

Sua figlia si è fatta in quattro per lui.

«Altro che in quattro. Ha cercato in tutti i modi di salvare il salvabile. Lui le ha spillato parecchi soldi. Era diventato cattivo, possessivo, la cercava anche quando stava con Elisabetta. Mari ha dimostrato una gran forza di volontà, non si è mai drogata, pur frequentandolo. Anzi, lavorava, aveva appena aperto un negozio di scarpe che andava molto bene».

Mari le aveva chiesto aiuto?

«Sì e, mi creda, è un momento bellissimo quando tua figlia ti dice: papà, ho bisogno di te. Io ovviamente non mi sono tirato indietro. Ha chiuso il conto corrente e chiedeva a me i soldi per uscire, per essere sempre nelle condizioni di dire a quel personaggio che non aveva soldi in tasca. C'erano dei debiti, glieli ho pagati e chiuso. Ma lui non la mollava».

Fino a quella sera.

«L'aveva chiamata per farsi dare la registrazione di un suo concerto. Pensi, ce l'ho ancora in casa quella cassetta. Quando i carabinieri hanno trovato l'auto di Mari e mi hanno chiesto se conoscevo lui, ho subito detto: me l'ha ammazzata».

In questi anni ha mai avuto contatti con lui?

«Mai. E non ho nemmeno nessuna voglia di farlo. Con tutto il bene che io voglio al prossimo. Ma un conto è Betty, un altro è quel signore lì. Lei l'ho voluta alleggerire, ho perfino firmato perché ottenesse la grazia. Avevo aiutato anche la sua mamma, ora morta, che aveva avuto problemi con la cooperativa in cui lavorava».

Mi sembra di capire che quando c'è da aiutare, lei lo fa senza guardare in faccia nessuno?

«Con la sua mamma parlavo, l'ho aiutata come faccio con tremila altre persone. Quando uno ha bisogno è solo un essere umano che ha bisogno».

Perdonare Elisabetta l'ha fatta sentire meglio?

«Come si fa a sentirsi meglio? Diciamo che quando vedo che qualcuno sta bene, va bene anche a me. Lei è riuscita a studiare e ora lavora, è ripartita, è un'altra persona rispetto a quegli anni».

È cattolico?

«Vede, non mi metto in ginocchio tutti i giorni ma credo che quello lassù, poverino, non voglia la chiesa mega galattica, vuole che noi pensiamo in un certo modo, seguendo quello che abbiamo dentro. Il campanile d'oro non serve a nessuno, è meglio farlo in legno ma col cuore. A Somma Lombardo ho organizzato tremila iniziative, tra cui manifestazioni sportive in ricordo di Mari, e la mia gioia è vedere che tutti si divertono e sono contenti».

Ha mai spronato al perdono qualche persona che desiderava vendetta?

«Sì. Nella casa di risposo che dirigo ho il papà di Andrea Bontade, il ragazzo a cui le Bestie hanno detto 'o ti uccidi tu o lo facciamo noi', quel signore che ci ha sorriso quando siamo entrati mentre giocava a carte. È un bravo uomo. Il papà di Fabio Tollis, ucciso nel 1998, invece è stato più duro, più arrabbiato. Io sono pronto al dialogo, al di là dell'odio. Vede, 50 anni fa, c'era l'odio fra i ragazzi della Repubblica di Salò e gli altri. E io combattevo quest'odio già all'epoca. A un certo punto bisogna dire basta. Non bisogna tenerselo addosso, non esiste. Esiste invece il dialogo. Uno dei grossi problemi è che nelle famiglie si parla poco. Io che lavoro tanto con i ragazzi, vorrei dire ai genitori di parlare con i loro figli, ovviamente senza essere un continuo pressing e nemmeno facendo le sorelle e i fratelli maggiori».

Cosa serve ai nostri figli?

«Serve qualcuno che si prenda la briga di tenerli per il sellino della bicicletta e insegni loro a pedalare. Che li sproni e li aiuti a rialzarsi quando cadono. Io, che sono appassionato delle due ruote, lo faccio».

È una metafora?

«Sì ma, fuor di metafora, ci crede che in quarta elementare ci sono bambini che non sono mai andati in bicicletta? Qualcuno deve fare capire a questi ragazzi che il mondo non è quello che vivono con la playstation, ma raccontare la storia. Fare capire perché oggi abbiamo queste libertà e questi diritti, raccontare di chi li ha conquistati per noi. Se creiamo la coscienza del passato siamo più consapevoli».

Non a caso lei ha l'età della Costituzione.

«Proprio quella. E racconto con orgoglio della Costituzione quando vado nelle scuole. Sono direttore d'organizzazione dell'associazione ciclistica. Io e il senatore Michelino Davico abbiamo anche organizzato un percorso in bici sulle tappe della Costituzione da Torino fino ai luoghi dove è accaduto qualcosa che ha cambiato l'Italia, per arrivare a Roma, dove ci ha ricevuto il presidente Mattarella. A settembre collegheremo i luoghi di Leonardo da Vinci con Matera, capitale della Cultura. Tutto in bici».

Nella sua vita c'è stata anche una parentesi politica.

«Me ne sono sempre interessato ma a mio modo. Negli anni Duemila mi sono candidato con Forza Italia, ho preso parte alla commissione Welfare a Roma nell'Unione delle province italiane. Ci ho creduto molto, ho dialogato con tutti, a destra e sinistra. Ho lavorato molto bene in Provincia di Varese con Marco Reguzzoni, abbiamo ancora un buon dialogo. Quella politica è stata gratificante, abbiamo fatto tanto nell'interesse dei cittadini, che è la cosa più bella che si possa fare».

Fare politica sembra sempre più difficile.

«Lo è. La politica è allo sbando. Se metti insieme il tutto e stringi in mano quel che hai non è che resti tanto. Io metterei tutto nel frullatore e ricomincerei da zero. Ci vuole qualcuno che lo dica chiaramente, che parli in modo onesto alla gente come faceva Indro Montanelli. L'ho sempre amato per questo».

Sarebbe disposto a ricandidarsi?

«Mi hanno chiesto di fare il sindaco a Somma. Qualcuno poi ha commentato: prenderà voti perché è noto per la storia di sua figlia. Allora ho detto di no. Mi ha urtato molto quella frase. Ma devo dire che ho avuto attestati di stima a destra e sinistra. Non ho smesso di interessarmi ai problemi della gente».

Lei aiuta i fragili, porta i disabili in bicicletta, si occupa di anziani. E si è anche occupato di tossicodipendenti. Combattendo contro quella droga che è stata alla base della storia delle Bestie.

«Me ne sono occupato dagli anni Ottanta, con l'eroina. Il problema è che tanti si interessano del recupero dei ragazzi ma manca la prevenzione in famiglia. Poi li mandi da Don Mazzi, ma prima? Ora vedo che la droga più pesante sono le le slot. Si vedono l'anima per avere due soldi da giocare. Se dici che stanno sbagliando, fanno apposta a fare il bastian contrario. Del resto si drogano per debolezza, o perché sono deboli ma cercano di fare i forti dicendo no a tutto. Io li prendo e li metto di fronte a uno specchio e dico: guardati! Non ci riempiamo la bocca con i servizi sociali e socioeducativi che, per carità, seguono una marea di situazioni difficili. Ma non serve pagare la bolletta della luce, serve creare lavoro, creare un percorso monitorato da seguire. In passato siamo stati molto superficiali».

In fondo, in ogni cosa che fa, lei non smette di essere un papà.

«Fin quando posso, sono a disposizione per tutti. Cerco di risolvere i problemi, a mio modo li affronto».

Sua moglie non è mai apparsa in questa storia?

«Mai. Ha sofferto molto ma non la sentirà mai dire qualcosa contro nessuno. Si è tenuta tutto per lei e io la rispetto. Si è messa a dipingere. Vede questo quadro dei leoni che mi proteggono? Li ha fatti lei. Mia moglie non ha mai dato adito a sceneggiate. Abbiamo gestito il nostro dramma in due modi diversi: lei nel suo intimo, io ho cercato di evidenziare il più possibile quello che un ragazzo non deve fare. Se ho rilasciato le interviste, è per fare capire è che le cose nella vita possono succedere».

Ha una foto di Mari a cui è particolarmente legato?

«Eccola, qui ha in braccio mia nipote Martina, che ora ha 17 anni, era la sua madrina. Erano al mare, in giardino. Stava bene. Si stava ricostruendo la sua vita, finalmente faceva cose che con quello lì alle spalle non poteva fare, tipo le vacanze in estate. Era stata a Gerba, si stava allontanando da quel brutto giro».

Mari era una brava ragazza, non penso abbia rimpianti su questo. Sarebbe stato più drammatico essere il papà di Andrea Volpe?

«Se fossi stato suo padre mi sarei mangiato il fegato per come è degenerata la situazione. Io invece parlavo con mia figlia, le ho potuto dare una mano, fino a quando è stato possibile. Il cruccio che mi è rimasto è che non l'ho salvata. Ma il dialogo con lei l'ho sempre avuto, tanto. Non mi stancherò mai di ripetere che per un ragazzo è un dovere chiedere aiuto ai genitori, anche quando si è spinto troppo in là con un errore. Una volta si puniva con una pedata nel sedere, oggi si dialoga. E allora dialoghiamo sul serio».

Andrea Volpe ha recentemente parlato della sua conversione alla fede. Cosa ne pensa?

«Non ci credo, ma neanche! Conoscendo il soggetto l'ha fatto per un altro scopo. Come all'epoca ha venduto i suoi amici. In cambio cosa ha avuto? Gli hanno dato vent'anni.

E a Betty 22».

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