La soluzione si chiama «realismo»

La vittoria di Hamas ha creato lo scompiglio nei media e nelle diplomazie. Le previsioni oscillano fra la trasformazione di Hamas in una “democrazia musulmana” palestinese e la creazione del primo stato terrorista (non solo talibano) del Medio Oriente. Fra le molte teorie sviluppate per spiegare il ribaltone palestinese e prevederne le conseguenze ci sono state riflessioni sul rapporto triangolare inesistente - democrazia/stato/disarmo - nella società palestinese. Ci sono state le solite spiegazioni delle responsabilità israeliane per il fallimento elettorale democratico di uno dei meno democratici sistemi di governo (instaurato da Arafat e continuato da Abu Mazen), ecc. ecc.
In questo confuso vociare di analisti, esperti e profeti tre fatti sembrano dimenticati. Il primo è la disfatta militare subita dal terrorismo palestinese - versione Hamas e versione al Fatah - in 4 anni di intifada. Il prezzo è stato altissimo da ambo le parti. Ma mentre la compattezza del popolo israeliano e lo sviluppo dello Stato non sono stati incrinati, quelli palestinesi sono stati a tal punto disastrati da obbligare l’Autorità palestinese a impegnarsi a mettere fine al terrorismo e Hamas - dopo la decimazione dei suoi capi - ad accettare la tregua. Se vorrà romperla - e per il momento non sembra averne intenzione - dovrà far pagare all’elettorato che lo ha portato al governo un prezzo che difficilmente potrà sostenere.
Il secondo fatto di cui non si parla è che Hamas dispone, al massimo, di 3.000 armati. Al Fatah ne ha 30mila, fra bande terroriste e poliziotti. Per l’Autorita palestinese era difficile, specie in epoca pre elettorale, usare queste forze per controllare il terrorismo contro Israele che solo a parole denunciava. Non vi sono “ragioni patriottiche” che impediscono ai militari di al Fatah e ai loro “signorotti di guerra” di lottare per la “legittima difesa” dei propri interessi, compresi gli stipendi pagati dall’Europa. La logica e la morale della lotta di liberazione nazionale non è quella delle mafie. Ma è questa la logica di potere con cui Hamas deve ora misurarsi se vuole governare. Questo significa due cose: che la conversione del successo elettorale in successo politico rappresenta per Hamas una sfida ben più seria di quella elettorale; che ha bisogno di tutta la calma e di tutto il sostegno che Israele gli può offrire sotto banco per raggiungere il suo scopo.
Il terzo fatto che sembra dimenticato nelle dotte dissertazioni politiche sul successo elettorale di Hamas è che Israele non ha bisogno della Palestina per esistere mentre la Palestina ha bisogno di Israele per farsi riconoscere, accettare come Stato sovrano e per vivere. Questo disequilibrio fondamentale può spiacere a molti ma è una realtà. Chiunque ha avuto a che fare con i palestinesi - dal tempo del mandato britannico a oggi - può ignorare l’opportunismo delle sue classi dirigenti. Un difetto privato che diventa - ma non solo in Palestina - virtù politica nota col nome di realismo.

Di questo realismo i Fratelli musulmani - di cui Hamas è la versione palestinese - hanno dato prova in Egitto, in Giordania, in Turchia, ovunque è stata aperta loro una strada verso il potere in alternativa alla violenza. Perché dovrebbe essere diverso in Palestina?

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