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Il "22 luglio" a Utoya la strage della solitudine di un numero zero

"La democrazia non è scontata", dice il regista che porta sul grande schermo la follia di Breivik

Il "22 luglio" a Utoya la strage della solitudine di un numero zero

One of Us, uno di noi. Si chiamava così il libro che Asne Seierstad, inviata norvegese di Newsweek nei teatri di guerra del mondo, scrisse per raccontare la strage di Utoya del 22 luglio del 2011. Quel giorno Anders Breivik, che si definiva un «soldato politico» al servizio della civiltà occidentale minacciata dall'immigrazione incontrollata e dal multiculturalismo, fece esplodere a Oslo un'autobomba davanti alla sede ufficiale del primo ministro norvegese (otto morti, 209 feriti). Un paio d'ore dopo, travestito da poliziotto sbarcò sull'isola di Utoya, dove si teneva un campo estivo giovanile organizzato dal Partito laburista. Il traghetto, che era stato sospeso, fu riattivato proprio per permettergli di sbarcarvi: era in uniforme, e così nessuno gli chiese un documento di riconoscimento. Una volta arrivato, avendo come bagagli due contenitori carichi di armi, l'unico addetto alla sicurezza presente intuì che qualcosa non era chiaro, ma Breivik lo freddò sul posto, e con lui l'organizzatrice del campus. Il massacro (69 morti, 110 feriti) cominciò subito dopo, una vera e propria caccia all'uomo con un fucile ad alta precisione.

«Per me la Norvegia era il focolare domestico» dice Asne Seierstad, qui al Lido per accompagnare 22 luglio, il film in concorso che Paul Greengrass ha tratto dal suo libro. «Rappresentava la tranquillità rispetto allo stress e al rischio del mio lavoro abituale. Conoscevo il terrorismo internazionale e di colpo mi ritrovai sprofondata nel terrorismo scatenato da uno che abitava non lontano da casa mia, era andato nelle medesime scuole, frequentato gli stessi luoghi. Non era un mostro, uno straniero, un estraneo. Era uno di noi, appunto, e mi interessava capire come e perché fosse arrivato a pianificare quella strage».

Al processo, Breivik tenne l'atteggiamento sprezzante di chi si considerava il leader di un'armata di crociati. Vacillò soltanto quando uno dei teorici del suprematismo bianco norvegese chiamato a testimoniare lo liquidò come un mitomane, pericoloso, ma mitomane: con la sua azione aveva inoltre recato danni immensi alla «difesa dei valori occidentali» concluse. «È vergognoso» si sfogò Breivik con il suo avvocato: «Non si tradisce chi sta combattendo al tuo fianco».

Dalle udienze venne fuori che l'armata di crociati era solo nella sua mente, non c'erano altri «soldati politici» pronti all'azione, non c'erano altri «obiettivi militari». «All'inizio - dice il regista Greengrass - Breivik accettò di dichiararsi non sano di mente. Cambiò idea quando si rese conto che così facendo si autoescludeva dal processo stesso, si privava dell'unica tribuna da cui poter parlare, dire le sue verità. Quello che a me interessava era proprio questo confronto di posizioni. I superstiti di Utoya che vanno a testimoniare, con tutti i loro traumi fisici e psicologici, sanno di far parte di un tessuto umano e sociale, mentre dall'altra parte c'è unicamente la solitudine di Breivik, la sua paranoia».

Filo conduttore del film è proprio il racconto di uno dei ragazzi allora gravemente ferito e che oggi, nonostante si porti ancora schegge pericolose di proiettili nel cranio, studia da avvocato e sogna un impegno in politica. «Le democrazie - dice ancora il regista - non si possono dare per scontate e non sono eterne. Debbono essere disposte a battersi per i principî che incarnano. Non è una questione di mera sicurezza e di controlli, anche se nel caso di Utoya ci fu in materia un pressapochismo totale. È qualcosa che riguarda la capacità di far valere le proprie ragioni. Non bisogna cadere nella trappola delle semplificazioni, perché ci danno lo specchio deformato della realtà. Il populismo, o Steve Bannon, sono un rischio, proprio di un nazionalismo lasciato senza contrappesi, ma non hanno nulla a che vedere con Brevik, nel senso che non è quella la loro logica. È interessante però notare che la retorica da questi usata al processo, nel giro di un decennio è diventata materia comune di tante dichiarazioni.

Come regista io non ho messaggi cinematografici da lanciare, ma credo che il cinema debba raccontare ciò che ci circonda, aiutarci a trovare le risposte giuste in un mondo che va facendosi sempre più rabbioso».

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