Cultura e Spettacoli

La Traviata, tra scandali e cattivo gusto

L'opera divide tutti. Il sovrintendente: "Non siamo qui per divertirci"

La Traviata, tra scandali e cattivo gusto

Violetta muore d'amore, povera (come un italiano su tre), tra farmaci e liquori. Ma rinasce in abito nero, piumato, da gran soirée, Diana Damrau: il soprano che ha dato voce e corpo alla protagonista della Traviata di Verdi, in scena sabato alla Scala. E poi via, con altri 450 ospiti a festeggiare questa Prima della stagione alla Società del Giardino per una cena alla Verdi tra camelie e violette, risotti, faraone, vini Franciacorta e delizie varie. Tra ministri, presidenti (della Commissione Europea, Senato, Confindustria), ex primi ministri (Mario Monti), autorità varie, sponsor. E ovviamente gli artisti, gli artefici di questa Traviata che ha avuto il pepe di qualche contestazione, alla regia anzitutto. Buon segno, dice Daniele Gatti, il direttore milanese che è stato salutato calorosamente al proscenio, ma ha ricevuto qualche buu.

A bocce ferme, ciarliero come non sempre accade, e raggiante per l'impresa superata, Gatti dice di non credere alle apoteosi, poiché hanno il sapore del finto. «Quello che conta è che nessuno abbia disturbato nel corso dell'opera, che tutti siano stati in silenzio fino alla fine e che quindi ci sia stato il rispetto per noi artisti. Questa Traviata ha diviso? Non tutti erano d'accordo? Che male c'è. Il teatro è fatto per dividere. E poi, non ritroviamo simili dinamiche anche in famiglia? Forse in famiglia si è d'accordo su ogni cosa?». Pienamente soddisfatta, dato il successo incondizionato, è Diana Damrau: dolce ma teutonica. Non usa diplomazie per dire che effettivamente non le sono piaciuti i costumi. Anche perché, «ho avuto due figli, l'ultimo un anno fa, e non sono ancora in forma. Non potrei ancora indossare certi abiti...». Una Violetta - effettivamente - un po' in carne, forse imbarazzata dalle pretese del regista di farne una Marylin Monroe in salsa verdiana. A parte i costumi (perplessi anche stilisti come Armani e Curiel, in platea) la Damrau promuove questa produzione creata apposta per lei dal regista russo Tcherniakov. Che cosa in particolare? «Il fatto che non sia la Violetta che tutti hanno in testa, che non sia la vittima cortigiana, ma una donna forte che non muore di tisi ma d'amore, addolorata per il fatto di non aver amato abbastanza». Dispiaciuta per le contestazioni alla regia? «Ho assistito a contestazioni di ben altra natura. Erano da mettere in conto: è un'opera che, soprattutto fatta qui a Milano, accende tante aspettative. Anzi sa cosa le dico? Questa Traviata avrà un grande futuro». Il regista Dmitri Tcherniakov, fra l'emozionato e il turbato, a sipario chiuso ha confessato apertamente quanto fosse «preoccupato della messinscena di Traviata, capisco cosa rappresenti per voi questo titolo. E invece, una volta arrivato qui, nessuno mi ha guardato come il giovanotto (in realtà 43enne - ndr) venuto dalla Russia. Tutti mi hanno aiutato, mi hanno preso sottobraccio. Ho sentito tanto calore». Regia troppo moderna? E basta con moderno-troppo moderno, dice Stéphane Lissner, il sovrintendente al suo ultimo 7 dicembre, tutto preso - ormai - a levarsi sassolini dalle scarpe. C'è chi dissente? Li bolla con un «talebani». E via con il mantra: «La missione di un teatro pubblico è confrontarsi con la contemporaneità, e ben lo sanno gli artisti, sanno cosa è accaduto a Lampedusa, conoscono la crisi, conoscono il mondo in cui vivono. Il teatro non è puro diletto. Deve far riflettere». Ora testimone passa a Alexander Pereira conquistato dal fatto di operare in una città da tre milioni di abitanti, nell'anno di Expo. E che non usa il pronome «Voi» quando si rivolge agli Italiani.

Indelicatezza lissneriana della quale non avvertiremo la mancanza.

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