Cultura e Spettacoli

Le armi dell'esteta D'Annunzio erano anche quelle politiche

Patriottismo, passione adriatica e spirito conservatore sono le idee cardine del Vate. Anche nei giorni di Fiume

Le armi dell'esteta D'Annunzio erano anche quelle politiche

Un grande scrittore e drammaturgo francese, Romain Rolland - quasi suo coetaneo ma da lui tanto diverso al punto che, pur avendolo frequentato per qualche tempo, non riuscì mai ad amarlo né ad apprezzarlo - disse che in Gabriele D'Annunzio non v'era «nulla di un poeta, nulla di un artista» e aggiunse, con una punta di velenosa malizia, che gli «sembrava un addetto d'ambasciata molto snob». Al di là della cattiveria, tuttavia, la battuta di Rolland, depurata dalla sua carica dispregiativa, coglieva, almeno in un punto, nel segno. Che D'Annunzio, infatti - in realtà grandissimo poeta e animo d'artista, contrariamente al giudizio velenoso e semplificatorio di Rolland - fosse uno snob è fuor di dubbio.

Ma era, egli, uno snob sui generis, capace di ironia, anzi di quell'autoironia che lo spinse ad adottare, per firmare certe sue celebri cronache mondane, lo pseudonimo «Duca Minimo», quasi certamente con allusivo riferimento alla sua bassa statura. Che, però - val la pena di rammentarlo - lo accomunava ad altri «grandi», a cominciare dal suo amato Napoleone.

Lo snobismo di D'Annunzio era, in un certo senso, insito nella sua stessa natura, era, per così dire, una manifestazione plastica del suo narcisismo e del suo egocentrismo. Era uno snobismo che traduceva, quasi in una ideale autorappresentazione, quel culto per la bellezza al quale egli fu sempre devoto, da giovane e da anziano, da viveur e donnaiolo a letterato e uomo d'azione. La categoria di «esteta armato», introdotta alcuni anni or sono da Maurizio Serra in un saggio dedicato ad alcuni spiriti eterodossi dell'intellettualità europea a cavallo tra il XIX e il XX secolo, coglie assai bene l'essenza della personalità dannunziana. E, al tempo stesso, spiega la difficoltà di por mano alla stesura di un lavoro biografico esaustivo di una figura e di una personalità tanto sfaccettate e poliformi. Occorrono, per un'operazione del genere, equilibrio storiografico e sensibilità artistica, competenza letteraria e attitudine psicologica, oltre che, naturalmente, capacità ed eleganza di scrittura.

La più recente (e, allo stato, la migliore e più suggestiva) ricostruzione biografica del poeta-soldato è stata scritta proprio dall'ambasciatore Maurizio Serra, il quale al suo «esteta armato» ha dedicato un corposo volume dal titolo L'Imaginifico. Vita di Gabriele D'Annunzio (Neri Pozza, pagg. 720, euro 25) che in Francia, dov'è stato originariamente pubblicato, ha ottenuto due prestigiosi riconoscimenti, il Prix Chateaubriand e il Prix dell'Académie des Littératures. Il pregio di questa biografia, frutto di anni di ricerche, sta nel tentativo, a mio parere ben riuscito, di non isolare, ovvero far prevaricare, all'interno della narrazione la figura del letterato o dell'artista rispetto a quella dell'eroe o del politico o, infine, anche del crepuscolare esiliato nella dorata e quasi rinascimentale residenza del Vittoriale.

D'Annunzio, l'«esteta armato» D'Annunzio, è un caso unico nella cultura italiana del primo Novecento, non solo e non tanto per la poliedricità della sua persona - per quell'essere, insomma, al tempo stesso, poeta e artista, dandy e seduttore, condottiero e visionario politico - quanto per aver inscritto tutte queste sfaccettature della sua personalità, la personalità di un «poeta in azione», sotto l'insegna di una avventura continua e senza fine. Per Maurizio Serra, tuttavia, D'Annunzio non è affatto un avventuriero, bensì un «vero principe dell'avventura, precursore e fratello maggiore dei Lawrence d'Arabia, Saint-Exupéry, Malraux e Roman Gary». È un termometro, si potrebbe aggiungere, che registra gli stati febbrili di tutta un'epoca attraversata in tutti i campi culturali e politici da pulsioni rivoluzionarie, al di là del bene e del male, di ogni tipo e di ogni colore.

Leggere D'Annunzio, e ricostruirne le vicende umane, alla luce di una ideologia politica o anche soltanto di una passione politica sarebbe del tutto fuorviante. Egli non fu mai un politico nel senso proprio del termine. Fu, semmai, un letterato che pensava alla politica, in tutte le sue possibili manifestazioni, con l'aristocratica supponenza di chi in essa vedeva uno strumento per soddisfare o, in qualche misura, esaltare il proprio narcisismo e la propria volontà di azione. Il cimentarsi, lui letterato e poeta, con le schermaglie politiche, prima, e con la guerra guerreggiata, poi, non era che un modo di mostrare, a se stesso prima che agli altri, di saper «osare l'inosabile». Era, ancora una volta, una manifestazione di quello snobismo aristocratico proprio dell'«esteta armato».

Tuttavia, D'Annunzio passioni politiche ne ebbe. Il suo patriottismo, molto risorgimentale invero, era un sentimento sincero. Come sincera era la sua passione adriatica. In lui ci fu quello che Serra chiama «l'accecamento nazionalista degli intellettuali», proprio degli albori di un secolo battezzato dalla Grande Guerra, ma il suo nazionalismo non aveva nulla a che fare con quello delle organizzazioni politiche nazionaliste propriamente dette. Si trattava, piuttosto, di un nazionalismo che esprimeva un sentimento generalizzato all'epoca in diversi Paesi europei e in diversi strati sociali e che comunque, nel suo caso, non perdeva di vista il contesto internazionale.

Assai più discusso e controverso è il rapporto di D'Annunzio con Mussolini e con il fascismo. L'immagine del poeta-soldato come «Giovanni Battista del fascismo» per troppo tempo e con troppa leggerezza è stata accreditata sia da una letteratura fascista o filofascista in cerca di quarti di nobiltà culturale, sia da una letteratura antifascista e anti-dannunziana appiattita sull'ideologismo democratico e pacifista e tutta tesa a creare una linea di continuità fra i rituali del fascismo-regime e quelli che si svilupparono a Fiume durante il periodo dell'impresa dannunziana.

Che tra il poeta e il duce non corresse buon sangue, malgrado gli apprezzamenti reciproci e di circostanza che i due si scambiarono, è un dato di fatto. Come, pure, è un dato di fatto che il «politico» Mussolini cercasse di neutralizzare la paventata concorrenza politica del «poeta dell'azione», ovvero dell'«esteta armato». Quale fosse il reale sentimento del duce nei confronti del suo amico-nemico lo fa ben intendere una sua riflessione sui costi che il regime sopportava per onorare e tenersi buono il poeta: «D'Annunzio è un dente cariato che bisogna riempire d'oro». Sul rapporto fra D'Annunzio e il fascismo, il giudizio di Maurizio Serra è corretto ed equilibrato, oltre che pienamente condivisibile: «D'Annunzio alla fine si è schierato con il fascismo, obtorto collo, dopo averlo contrastato. Ma se ha accettato il regime in mancanza di meglio, è altrettanto vero che non è mai stato fascista, né con il cuore né con la ragione, e il suo rivale Mussolini seppe metterlo in condizioni di non nuocere, ricoprendolo di onori con l'intento manifesto di soffocarlo».

Il capitolo che Serra dedica ai «cinquecento giorni» di Fiume, quelli che vanno dal pomeriggio del 12 settembre 1919 al Natale di sangue del 1920, è uno dei più coinvolgenti del suo volume, non solo per la ricchezza delle informazioni (a cominciare da quelle relative ai finanziamenti dell'impresa) e per la ricostruzione del «clima» della «città di passione», ma anche, e soprattutto, perché consente di rivedere alcuni giudizi largamente diffusi. Come, per esempio, quello relativo alla perfetta sintonia che ci sarebbe stata fra D'Annunzio e De Ambris sia sulla Carta del Carnaro, «il più originale e insieme il più equivoco dei documenti usciti dall'esperienza dei cinquecento giorni», sia sulla loro visione politica. Se l'ideologia dannunziana oscillava, secondo Serra, «tra l'internazionalismo dei principi e il nazionalismo delle azioni» era evidente che «D'Annunzio non condivideva le concezioni più radicali di De Ambris e ancor meno la prospettiva di trasformare, prima o poi, la Repubblica in Soviet», perché «nonostante le provocazioni, il gusto per la rivolta, il desiderio di apparire come protagonista di una nuova Europa, egli restava molto più un conservatore che un rivoluzionario».

Anche se, potremmo aggiungere, il suo conservatorismo era proiettato verso il futuro.

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