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Arte, tanta bellezza e mistero, ecco il vero scrittore: Handke

"La storia della matita" non è una semplice ristampa: è un classico sempre valido, decennio dopo decennio

Arte, tanta bellezza e mistero, ecco il vero scrittore: Handke

Dopo un lungo periodo trascorso a leggere soprattutto sciocchezze, ecco finalmente il libro di un vero scrittore. Uno di quei libri che si leggono solo perché una pagina tira l'altra, un paragrafo tira l'altro, e non per qualche incantamento artificiale ma per la crudeltà di scrittura, per una onestà portata alla magnificenza, per la dolorosa intelligenza che non fa sconti nemmeno a una parola, una metafora.

Ecco uno scrittore. E ripeto: finalmente. Giunge di nuovo sul mio tavolo, dopo tanto tempo, La storia della matita (tr. E. Picco, Guanda, pagg. 250, euro 19,00) di Peter Handke e lo leggo tutto, senza interruzioni, e anche quando mi è chiaro cosa scrivere nella recensione lo riapro, lo rileggo, e lo rileggerò anche dopo che queste righe saranno pubblicate. Lo terrò sul comodino, dove avrebbe dovuto trovarsi già.

Un libro di cui ogni scrittore dovrebbe leggere anche soltanto mezza pagina prima di mettersi a scrivere: «A ogni frase che ti passa per la testa domandati: Questo è veramente il mio linguaggio?» Scritto tra il 1976 e il 1980, pubblicato per la prima volta a Francoforte nel 1985 e in Italia nel 1992 - ci troviamo dunque di fronte a una ristampa, che però non è una vera ristampa, ma molto di più - questo capolavoro, il mio preferito tra tutti i libri di Handke, mostra anche nella successione delle date i segni di una cautela editoriale oggi ignota. Handke ha riflettuto prima di decidere di dare alle stampe questo diario di vita e di lavoro, di «io» e di «mondo», prima di trasformarlo in un libro: strana entità, oggi vittima della scontatezza senza pensiero che sembra conquistare come una macchia buia tutti i settori dell'attività umana.

Di fronte al tempo che incalza, di fronte alla Storia che galoppa, occorre prendere tempo, rallentare il passo, come diceva Sinjavskij. Perché? Perché per salvare (ossia conservare, mantenere) il mondo, o anche soltanto il pezzettino di mondo che ci è dato, è necessario fissarlo bene dentro di noi, quel mondo, coglierne con esattezza le forme, i colori, il suo sorgere totalmente gratuito in noi, e il suo permanere in questa gratuità da cui nasce la vera attrattiva. Solo a quel punto possiamo parlare di «realtà»: solo se rende possibile una «fuga verso il mistero».

«La bellezza è da me vissuta al contempo come arcana comparazione, ossia: con l'esperienza della bellezza si apre una possibilità di paragone, il cui secondo termine rimane però misterioso; vengo soltanto stimolato a comparare». Come si vede da questo magistrale frammento di intelligenza estetica, Handke non ne fa una questione di religione, ma di attenzione. Mai lasciarsi distrarre dalle parole, dai giri di frase, attenzione agli eccessi di «narrazione. Nessun racconto ha vera dignità se non contiene in sé la resa a ciò che è non-narrabile: un impulso, una reazione, un'associazione, insomma tutto ciò che si presenta così gratuito da apparire superfluo, e chiede allo scrittore non di renderlo illusoriamente fruibile al lettore, ma di isolarne, per così dire, la gratuità, talora la follia - come fa Joyce, sfidando l'illeggibilità per amore del lettore - affinché il lettore, anziché raccogliere informazioni irraggiungibili, possa guardare in sé ciò che a sua volta non è comunicabile, per riconoscervi quella stessa radice gratuita.

La riduzione del raccontare a «comunicazione», a «connessione», se non a «condivisione» è una delle grandi menzogne dell'epoca attuale, fonte di infiniti equivoci nei rapporti che intratteniamo con noi stessi, col nostro corpo e con gli altri. Il giusto bisogno - specialmente nell'epoca attuale, fatta di incontri spesso drammatici - di scambiarci le nostre storie, di aprirci, di sentirci partecipi l'uno dell'altro non deve farci dimenticare quello che Freud ci ha insegnato a proposito dell'altra parte di noi, quella che non si racconta, e che in questa (non)forma di non-racconto permane nel lavoro di chi è chiamato a raccontare il mondo, in primis gli scrittori. In Handke il racconto si sottomette all'attenzione, virtù suprema. La parola è un atto di duplice obbedienza: a sé da un lato, e dall'altro all'apparire esatto delle cose: la luna in un fondovalle, il movimento delle foglie percosse dalla pioggia, un moto sbieco dell'animo.

Principale nemico: il «saper-già». Leggo: «Non riesco a scrivere nulla, se la so più lunga, se cesso di essere una creatura umana». E più oltre: «Se io, in un campo qualsiasi, fossi un esperto, sarei perduto». Non si vuole, qui, salvaguardare romanticamente l'incertezza, la vaghezza, ma solo sottolineare il valore conoscitivo della letteratura, che si accende nel momento in cui una vicenda, un volto, una situazione concreta si legano al desiderio che le muove verso il mistero. Questo è l'umano.

«Non seppero riconoscere il proprio desiderio, quando questo finalmente si fece vivo in loro, perché fino allora lo avevano vissuto soltanto impagliato»: impagliato in un discorso, in una teoria, in una rete di pre-giudizi. Chi sa troppo, non impara più. Lo diceva Socrate, all'inizio della nostra civiltà oggi morente.

Per tutte queste cose, in un mondo che nulla ha più a che vedere con quello del 1985 o del 1993, sarebbe riduttivo considerare questa uscita come una banale ristampa. Sono le stesse parole, gli stessi pensieri, le stesse preoccupazioni di un grande scrittore prudente e riflessivo, che non ha mai sprecato una parola in vita sua. A cambiare sono i destinatari: abitatori e protagonisti del mondo di oggi, che a quel tempo erano bambini o dovevano ancora nascere. A cambiare è un'idea di editoria, di letteratura, di libro, forse di «uomo» che nessuno, in quegli anni, poteva immaginare.

Eppure, lette nel 2018, le parole sempre misurate di Peter Handke restano, oltre che una lettura affascinante, un punto di paragone vivo, utilissimo per misurare il tempo in cui viviamo: ciò che è cambiato, ciò che diamo per certo e non lo è, i passi falsi e gli inciampi di cui è piena non solo la vita di ogni giorno, ma anche la vita dei nostri quotidiani racconti.

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