Cultura e Spettacoli

"Artisti del suicidio" e vili imitatori

Un saggio ristabilisce i confini tra gesti di rivolta e follia jihadista

"Artisti del suicidio" e vili imitatori

Dannunzianamente, si può fare della propria vita un'opera d'arte. Oppure si può praticare l'«arte del suicidio» per raggiungere la propria missione, da non confondere con un momento di misera disperazione. Per sacrificarsi lottando, come Jan Palach, per eternarsi amando, come Yukio Mishima, o per donarsi - secondo il senso attribuito da George Bernanos - a una fede, a un'idea, a una patria, come Dominique Venner. Nel mondo di oggi, il suicidio incarna gran parte della narrazione della realtà, specie nell'accezione del martirio islamico. E subito, parlando di questo, corre alla mente una parola, su tutte: kamikaze.

Da qui parte il viaggio purificatore di Daniele Dell'Orco, che si addentra, come lama calda, fin nelle pieghe più dense della dimensione eroica, militare, spirituale, nelle motivazioni e nei processi: Non chiamateli Kamikaze. Dai Cavalieri del Vento Divino ai tagliagole dell'Isis (Giubilei Regnani, pagg. 430, euro 22). Un saggio di rottura, non un esercizio di stile, che arriva a porre chiarezza, laddove la bulimia d'informazione inchioda all'arrotondata approssimazione. Mentre perdiamo miseramente la battaglia semantica sul campo della relativizzazione del reale, tornare a dare un nome alle cose è battaglia d'onestà verso l'orientamento collettivo. Questo intende fare Dell'Orco con un viaggio nell'«arte del suicidio» in tempi di terrorismo e di mistificazione linguistica e culturale.

Cosa significa immolarsi? Cosa sono i kamikaze? Perché vengono chiamati così? Chiunque arrivi a sacrificare se stesso per una causa è tale? I miserabili del Bataclan, o di Nizza, di Bruxelles, gli shuhada che si spingono al martirio, e che nella concezione islamica compiono un'operazione di testimonianza della Fede, sono ben diversi dai tokkotai, piloti militari giapponesi che interpretano il suicidio con eroismo patriottico e spirito di sabotaggio, in un senso di obbligazione morale che supera persino la Fede, con cui spesso si semplifica e confonde il concetto di kamikaze (letteralmente «vento divino»), che in Giappone indica un tifone che nel 1281 salvò dall'invasione mongola. Limitare l'immaginario collettivo è un'urgenza, per non finire nella replica di una frettolosa crociata dell'antifascismo, in una nuova colpevolizzante banalizzazione.

Ecco, allora, tra le pagine un viaggio chirurgico e fluente, completo, capace di inquadrare un fenomeno. Dal mondo latino, nelle invocazioni di libertà e giustizia di Seneca e Catone Uticense, fino al karoshi, la «morte da superlavoro», che in Giappone affligge i lavoratori, nella ricerca ossessiva della produttività e della dedizione totale al proprio mestiere, parte del dramma moderno del Sol Levante, terra d'onore, fino ai moderni tagliagole dell'Isis, solo per citare alcuni esempi. Un saggio carismatico, questo di Dell'Orco, che al Sol Levante e agli uomini del jihad dedica le pagine migliori del suo lavoro, dal finale affatto scontato: «il libro non è un'opera sulle tecniche di guerra, o sulla mania del suicidio, ma su quanto l'Occidente sia ormai sottomesso alle etichette. Più facile è attribuire un'etichetta a chi ci è intorno, più facile è riuscire a definire se stessi», per dirla con l'autore.

Riflessione sul senso profondo, oltre il disgusto di un malessere morale, di come la morte, anche quella volontaria, possa avere un senso più ampio della degenerazione, proprio come la vita.

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