Cultura e Spettacoli

La Biennale contro la barbarie riscopre la vecchia Europa

L'edizione firmata dalla francese Christine Macel pone al centro la cultura della nostra civiltà sotto attacco

La Biennale contro la barbarie riscopre la vecchia Europa

Due anni fa, per sfruttare la cassa di risonanza mediatica e turistica dell'Expo, la Biennale Arte venne anticipata di un mese. L'esperimento ha portato bene in termini numerici e dunque l'apertura è stata mantenuta a maggio anche nel 2017. Almeno climaticamente, scelta contraddittoria: certo si eviterà la gran calura di giugno con quell'orrenda sequela di bermuda, scamiciati e ciabatte che equipara il popolo dell'arte al generico turista, ma il rischio pioggia in questi giorni è concreto, l'umidità e il grigiolino veneziano dureranno almeno fino a mercoledì.

Con una coincidenza che sembra studiata a tavolino, la Biennale targata Christine Macel (dal 13 maggio al 26 novembre), con questo titolo non bellissimo ma certo facile da ricordare, Viva Arte Viva, apre poche ore dopo la vittoria di Emmanuel Macron alle presidenziali di Francia. Presentandosi davanti al Louvre, il nuovo inquilino dell'Eliseo ha simbolicamente rimesso al centro la tradizione culturale dell'Europa e c'è da augurarsi che i francesi ritrovino orgoglio e sciovinismo per far ripartire un Paese che in questi anni ha subito le offese più grandi. Quando, a inizio 2016, Paolo Baratta cavò dal cilindro il nome di Macel, seria conservatrice del Centre Pompidou ma un po' fuori dal jet set dei curators, in molti pensammo trattarsi di una scelta dettata anche dall'onda emotiva dell'attentato al Bataclan del novembre 2015. Dopo il terzomondismo globale di Enwezor, una Biennale scialba già archiviata, si doveva rimettere la barra al centro dell'Europa, il continente in cui l'arte è nata e si è sviluppata, certo con le sue ansie, il rischio di naufragio, la perdita di identità, ma pur sempre il centro del pensiero, della filosofia, della cultura tutta che da secoli alimenta la storia dei popoli. Una spinta verticale necessaria, contro ogni distruzione, come se fossimo ai primi del 900, quando le avanguardie, il cinema, il pensiero, tutto quanto, passava per Parigi. E Venezia, la Biennale più antica del mondo, è il suo specchio.

Sarà una mostra sì teorica, si tratta pur sempre di francese, ma con tante opere, di cui potremmo ragionevolmente dire che ci piacciono oppure no ma dove il giudizio di natura estetica sarà per una volta più importante del ragionamento speculativo che spesso conduce al niente. E vorrei scommettere che Venezia sarà ancora una volta più interessante della Documenta di Kassel (che si aprirà ufficialmente tra un mese dopo lo spin off ad Atene, inaugurato in aprile) perché, almeno nelle dichiarazioni, qui il curatore fa un passo indietro dal proprio ego ipertrofico e lascia parlare quadri, sculture, installazioni, foto, video e quant'altro senza ammorbarci con pensierini pseudopolitichesi e inutili tirate saccenti. Certo, Macel ci ha rimesso molto di quella visione enciclopedica che fu ottima con Massimiliano Gioni nel 2013, ma l'idea che emerge è davvero quella di una festa dell'arte. L'atteggiamento più onesto e forte che si possa tenere oggi, a fronteggiare l'emergenza della barbarie.

Così, in attesa di gustare il piatto forte, assaggiamo due antipasti di eccezionale qualità. Le personali di altrettanti straordinari pittori americani moderni, rari ed esclusivi, che da soli valgono la trasferta in Laguna: Philip Guston alle Gallerie dell'Accademia, Mark Tobey alla Guggenheim Collection. Guston, che in Italia si è visto pochissimo, per decenni snobbato dalla critica, si rivela come il precursore di quella figurazione che cita il fumetto, l'illustrazione, la letteratura senza però sbordare nel Pop. Emerso con la generazione degli Espressionisti Astratti, negli anni '50 Guston realizza dipinti astratti piuttosto generici; poi, finalmente, rompe le riserve e torna a fare ciò che gli riesce meglio, pescando in un immaginario surreale, nero e ironico, dove gioca un ruolo importante la poesia. Alcuni suoi quadri, con quella curiosa dominante cromatica tra il rosso e il rosa, sono talmente freschi da sembrar realizzati ieri.

Tobey, altrettanto esclusivo, è artista calligrafico, a tratti mistico, che predilige la retorica del piccolo formato quando Pollock e Rothko spaccano l'unità pittorica con opere monumentali. Finemente concettuale senza mai rischiare il decorativo, raggiunge l'apice negli anni '40 raccogliendo la sfida del bianco per una pittura di scrittura, minimalista e ossessiva, che lo proclama davvero come uno dei grandi protagonisti dell'Informale.

Non a caso il suo successo passa dall'Europa, in un tessuto culturale più permeabile alla delicatezza e alla sapienza esecutiva rispetto a quell'America che sta per lanciare, allora, l'arte nuova.

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