Cultura e Spettacoli

"Canti popolari e romanzi catturano la vita, la mia è un'avventura"

Ha scritto canzoni con Calvino, discusso con Croce, frequentato Primo Levi e Umberto Saba...

"Canti popolari e romanzi catturano la vita, la mia è un'avventura"

A 92 anni, una vita «scissa fra Biella e Torino», fra il lavoro di avvocato («Mio padre aveva uno degli studi più importanti della città, era l'avvocato dell'imprenditoria biellese, mi ha insegnato la moralità e la serietà») e quello di musicologo, scrittore e poeta, Emilio Jona garantisce: «Io la noia non so che cosa sia». Si è occupato di tribunali e canti popolari (fra le raccolte: Senti le rane che cantano. Canti e vissuti della risaia, Donzelli 2005; Le ciminiere non fanno più fumo. Canti e memorie degli operai torinesi, Donzelli 2008), ha scritto canzoni con i Cantacronache, libretti d'opera, testi teatrali («Facevamo teatro popolare, ma molto prima di Paolini... e non ho mai guadagnato una lira»), poesie come quelle di La cattura dello splendore, «pubblicato da quel meraviglioso editore che era Scheiwiller» (1998). «Eppure è proprio ora, sulla soglia di una vecchiaia molto tarda, che ho scritto i miei due libri più importanti». Nel giro di pochi mesi sono usciti Al rombo del cannon. La Grande guerra e il canto popolare (con Franco Castelli e Alberto Lovatto, Neri Pozza, pagg. 831, euro 60) e Il fregio della vita (Neri Pozza, pagg. 140, euro 16), una storia d'amore e tradimento raccontata dal punto di vista di lui e di lei, grazie a un nano che ritrova un diario e delle lettere. «Ai canti della Grande guerra abbiamo lavorato in tre, per tre anni. Ci tengo a dire che, con i due autori, c'è un sodalizio che dura da vent'anni».

È un volumone di quasi 850 pagine...

«Abbiamo analizzato questi canti come mai in Italia. Dal basso, sul piano antropologico, più che su quello storico e militare. Non si è mai cantato tanto quanto nella Prima guerra mondiale».

Che cosa si cantava?

«Molti sono canti patriottici, ma la maggior parte sono canti popolari, che raccontano la sofferenza, la solitudine, il macello, la distanza dalla famiglia. Non c'è grande creatività sul piano musicale, ma c'è un uso di tutto lo spettro del canto tradizionale, epico-narrativo, e anche d'evasione, con un forte elemento parodico, che stravolge il testo. Come Tripoli che diventa suol di dolore».

E come mai ha deciso di scrivere un romanzo?

«È quello della mia vecchiaia, della maturità, diciamo. Tutto è nato con un racconto di vent'anni fa. È un romanzo sul lato oscuro della vita e su quattro grandi momenti dell'esistenza: amore, tradimento, gelosia, morte».

Il diario ritrovato è il punto di vista di chi narra la vita ormai da lontano?

«Da avvocato ho diviso almeno cinquecento coppie, mille persone: ho avuto molto a che fare con problemi di tradimento, gelosia, eros e affetti».

Perché è ambientato a Vienna fra il 1934 e il 1938?

«Amo la cultura austriaca degli anni Trenta. Racconto l'ultimo giorno di libertà nella Vienna del '38, prima della catastrofe. E mi sono divertito a mettermi nei panni di una donna... La protagonista è mezza ebrea, un aspetto che mi interessava per le mie origini».

Suo padre aveva fatto la Grande guerra?

«Mio padre ebbe anche una medaglia e fu difensore dei militari in molti processi, mio zio fu ferito a Caporetto. Comunque, tutti gli intellettuali erano per la guerra, anche quelli che poi sarebbero diventati antifascisti».

La sua famiglia ebbe dei problemi?

«Grossi problemi. Quattro miei parenti sono morti in campo di sterminio, fra cui una cugina fascista. Anche se la mia era una famiglia della borghesia medio-alta, e mio padre era l'avvocato dei grandi imprenditori della zona, nel '38 fui espulso da scuola. Mio padre era antifascista liberale, mia madre era cugina di Franco Antonicelli, antifascista cattolico e liberale, legato a Benedetto Croce. Fu a casa loro, a Pollone, che lo conobbi».

Ha incontrato Croce?

«Sì, da giovane. La villa di Antonicelli era proprio sopra quella di Croce; io avevo vent'anni e avevo appena letto Gramsci. Così andavo da lui a dialogare e a polemizzare... Era simpaticissimo. Molto anticlericale, molto superstizioso, sempre con il cornetto contro il malocchio. Era molto legato alla cultura popolare napoletana».

Quando ha iniziato a scrivere?

«Le prime poesie a vent'anni: le spedii a Mondadori e dopo tre mesi mi mandarono un contratto. Le aveva selezionate Sereni. Poi conobbi Saba, e ho scritto anche un romanzo sul rapporto affettivo fra lui e un mio cugino».

A Torino chi erano i suoi amici?

«Fra il '58 e il '62 ho frequentato Calvino, perché insieme abbiamo inventato i Cantacronache. Una persona deliziosa. Giravamo l'Italia, scrivevamo canzoni ispirate a Brel, Aznavour, Brecht, che raccontassero l'amore e la storia per come erano in realtà. Eravamo contro Sanremo e la Balena bianca democristiana, contro un linguaggio musicale povero e le canzoni usa e getta».

La canzone d'autore?

«Il tentativo fu quello. Calvino, Fortini, Eco scrissero per noi canzoni bellissime. La Rai non ci voleva e così giravamo per circoli, leghe operaie e contadine, case del popolo... Non sono mai stato iscritto a un partito, mentre Sergio Liberovici era comunista. Comunque, operai e contadini hanno iniziato a cantarci le loro canzoni, popolari e politiche, che nessuno aveva mai raccolto».

Perché?

«Erano considerate solo folclore. Abbiamo raccolto canzoni ovunque, moltissime in Calabria, Lucania e Sicilia: canti religiosi, sociali, politici, di lavoro, quelli dei salinari e degli ultimi solfatari. Vorrei scrivere un saggio ispirato a Tristi tropici di Lévi-Strauss, fra antropologia e letteratura: se avrò ancora qualche anno a disposizione, magari ci riuscirò».

Frequentava la borghesia intellettuale torinese e si occupava di canti popolari?

«Non l'alta borghesia, eh... ma quella intellettuale sì. Nei dieci anni prima della sua morte ho avuto un rapporto intenso con Primo Levi, facevamo spesso passeggiate, anche in collina. Era arguto, razionale, mai una banalità. Però ho fatto anche cose più strane, come andare in Algeria durante la guerra con Paolo Gobetti, figlio di Piero, e Sergio Liberovici, per raccogliere le canzoni dei partigiani algerini contro i francesi. E nella Spagna di Franco».

Quando?

«Nel '61. Abbiamo raccolto i canti popolari contro Franco e li abbiamo pubblicati, con Einaudi. Il libro finì condannato in tribunale, così poi lo comprarono in tutto il mondo. Ma sa, a trent'anni eravamo incoscienti, si poteva...

».

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