Cultura e Spettacoli

Uno, cento, mille fascismi. Ecco i testi che fanno storia

Discorsi, articoli, saggi: l'antologia sul fascismo curata da Renzo De Felice illustra la pluralità di motivi culturali e politici del regime

Atleti del Guf vincitori dei Littoriali di Roma nel 1939
Atleti del Guf vincitori dei Littoriali di Roma nel 1939

Nel febbraio 1925, all'indomani del discorso con il quale Benito Mussolini inaugurò dopo la crisi del delitto Matteotti la svolta che avrebbe portato alla costruzione del regime, sulle pagine della rivista Critica Fascista, fondata e diretta da Giuseppe Bottai, apparve un articolo intitolato «Le cinque anime del fascismo». Lo aveva scritto, usando lo pseudonimo Volt, il conte Vincenzo Fani Ciotti. Questi era un intellettuale che potremmo definire di destra tradizionalista, la cui vita politica si era svolta a cavallo fra nazionalismo, futurismo e primo fascismo. Autore di un saggio dal titolo Programma della destra fascista, apparso l'anno precedente e divenuto oggetto di ampio dibattito, Volt sosteneva nel suo articolo che all'interno del movimento fascista erano individuabili cinque «anime»: una «estrema sinistra» con Malaparte e i repubblicani nazionali; un «centrosinistra» composto prevalentemente dagli ex sindacalisti rivoluzionari; una «estrema destra» rappresentata dai monarchici integralisti e assolutisti; un «centrodestra» composto da ex nazionalisti e, infine, un gruppo di «revisionisti» ormai in via di riassorbimento.

Al di là della esattezza, o non, dell'analisi contenutavi, l'articolo di Volt è importane perché fa capire come i protagonisti stessi del fascismo fossero ben consapevoli dell'eterogeneità culturale e politica del loro movimento. Dopo il crollo del regime e fino agli anni Sessanta quando, cioè, Renzo De Felice cominciò a scriverne in maniera scientifica e senza pregiudiziali ideologiche tutti, o quasi, i discorsi interpretativi sul fascismo tendevano a presentarlo come una realtà unitaria. I marxisti, per esempio, ne parlavano come di un fenomeno di classe, mentre i liberali come di una esplosione delle forze irrazionali. Malgrado le originarie differenze ideologiche e politiche, questi discorsi interpretativi avevano qualcosa in comune: l'idea che il fascismo fosse solo violenza bruta e, soprattutto, anticultura.Mentre lavorava alla stesura della sua grande opera su Mussolini, De Felice si pose il problema storiografico di cercare di capire la vera «natura» del fascismo, andando ben oltre le semplificazioni di questa letteratura interpretativa. Cominciò a leggere e analizzare l'imponente massa di scritti dedicati al fascismo e alla sua vicenda storica e si rese conto che anche le migliori opere sull'argomento, pubblicate nei primi decenni post-liberazione, risentivano del fatto di essere state scritte da studiosi appartenenti a una generazione troppo partecipe degli eventi e tendente, comunque, a eludere il tema della «natura» del fascismo.

Nacquero così, da una precisa esigenza di chiarezza intellettuale, tutta una serie di lavori saggi, voci enciclopediche, rassegne e antologie editi o redatti a partire dalla metà degli anni Sessanta, in parallelo con la pubblicazione dei volumi della biografia mussoliniana. Attraverso questi interventi il più celebre dei quali è il volume Le interpretazioni del fascismo (1969) De Felice tentò sia di dare una prima sistematizzazione critica della letteratura italiana e internazionale sul fascismo, sia di formulare una risposta al quesito relativo a quale tipo di regime esso fosse assimilabile. Si convinse che il concetto di fascismo non doveva essere dilatato fuori dell'Europa e del periodo compreso fra i due conflitti mondiali: le sue radici, infatti, erano tipicamente europee e penetravano in maniera profonda in quel processo di trasformazione della società europea innescato dalla Grande Guerra che generò una crisi di trapasso, morale e materiale, verso una società di massa con caratteristiche del tutto nuove. In sostanza De Felice, pur ammettendo in linea teorica la possibilità di individuare un più generale «fenomeno fascista», sempre peraltro limitato geograficamente e temporalmente, lasciò intendere che, da un punto di vista storico, sarebbe stato corretto parlare di fascismo soltanto con riferimento al caso italiano e con una particolare attenzione alla complessità della sua storia e dei suoi «valori» di riferimento.L'Autobiografia del fascismo apparsa alla fine del 1978 quando erano già stati pubblicati diversi volumi della biografia mussoliniana, nonché i lavori e le antologie sulle interpretazioni del fascismo e, non da ultimo, la celebre Intervista sul fascismo ha un posto importante nella produzione storiografica di De Felice, anche dal punto di vista metodologico. Raccogliendo, infatti, per la prima volta, testi fascisti scritti fra il 1919 e il 1945, egli volle sottolineare come fosse non soltanto opportuno, ma addirittura necessario ricorrere alle «fonti» di parte fascista per poter comprendere davvero quello che il fascismo, come movimento e come regime, era stato.

Attraverso questa ricca antologia di testi sistemati cronologicamente, De Felice riuscì a offrire, davvero, una ricostruzione dello sviluppo storico del fascismo in grado di far emergere, con riferimento a precise fasi e momenti, «posizioni, tendenze, suggestioni culturali, stati d'animo, aspirazioni, velleità non solo molteplici ma spesso tra loro assai diversi e talvolta inconciliabili».Quelle che Volt aveva definito, come si è ricordato, le «cinque anime del fascismo» non appaiono più sufficienti, dopo la lettura del volume di De Felice, a definire concettualmente il fascismo italiano né a esaurire il tema. Dalla Autobiografia del fascismo emerge infatti una pluralità di motivi culturali e politici propri del fascismo, motivi individuati da De Felice e collocati in una prospettiva di lunga durata: «alcuni destinati a morire col fascismo storico, altri a sopravvivere nel neofascismo postliberazione, altri ancora a evolversi sino a portare chi ne era partecipe su posizioni antifasciste, altri infine a inquinare persino alcune manifestazioni politico culturali apparentemente lontanissime ed antitetiche rispetto al fascismo». In questo quadro, per esempio, è sintomatico l'inserimento di testi degli anni Trenta di intellettuali che, in seguito, sarebbero diventati esponenti dell'antifascismo: da Delio Cantimori, che nel 1931 parla del fascismo come «rivoluzione e non reazione europea», a Corrado Alvaro, il quale inserisce «Mussolini tra i pionieri», fino a Fidia Gambetti, che nel 1936 invoca «l'ora del combattimento».

Proponendo una panoramica del fascismo e della sua vicenda storica «dall'interno» e dovendo per ciò stesso rifarsi a fonti e testi fascisti, la Autobiografia del fascismo di De Felice finiva per dare ampio spazio, in senso specifico e in senso antropologico, proprio alla dimensione culturale con la scelta che poneva, per usare le parole dello storico, «fine, fra l'altro, all'assurda discussione se sia o no esistita una cultura fascista».

E, anche sotto questo profilo, essa contribuiva a dare una ulteriore spallata all'uso politico della storia.

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