Cultura e Spettacoli

Ma chi l'ha detto che il fascismo non ha fatto cose buone?

Cultura, economia, amministrazione, scienza Studiosi serissimi rivalutano il Ventennio

Ma chi l'ha detto che il fascismo non ha fatto cose buone?

Mai come negli ultimi tempi si è parlato così tanto del rapporto tra fascismo e antifascismo. Fino alla noia, se pensiamo che siamo nel 2019. Che però è il centenario della nascita dei Fasci di Combattimento.

Sul tema - caldissimo sia nei media che nella società civile - si spendono i migliori editorialisti (ieri sul Corriere della sera Ernesto Galli della Loggia ha dedicato un lungo pezzo al monopolio della Sinistra sull'antifascismo), i politici dell'intero ventaglio parlamentare (che si danno reciprocamente del «fascista»), gli intellettuali democratici (ossessionati da un ritorno «strisciante» del fascismo, il cui fantasma ha rovinato anche l'ultimo Salone del Libro di Torino), i romanzieri (chissà se lasceranno che Antonio Scurati vinca il premio Strega con un romanzo su Mussolini), gli antagonisti dell'ultrasinistra (Matteo Salvini è un fascista a prescindere) e gli storici, i quali - in modo più serio - tendono a escludere paragoni irriverenti fra la dittatura di Mussolini e l'attuale governo.

Soprattutto, da noi, sembra impossibile affrontare con le dovute sfumature di giudizio il capitolo «colpe» e «meriti» del Regime. Sulle prime, non ci sono discussioni: il fascismo ne ha commesse abbastanza per essere condannato in eterno, dall'omicidio Matteotti alle leggi razziali fino alla guerra in cui ha trascinato il Paese. La controversia è invece sui secondi, i meriti. Qui, al di là di pamphlet «a tesi» che sfruttano l'onda polemica del momento, come quello recente di Francesco Filippi («Mussolini ha fatto anche cose buone». Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo, Bollati Boringhieri), il confronto dovrebbe rimanere aperto. E invece, ultimamente, è pressoché impossibile avanzare anche solo l'ipotesi che il fascismo, dietro la sua maschera più violenta e intollerante, possa aver avuto volti o espressioni diverse.

Lo scorso anno la grande mostra Art Life Politics: Italia 1918-43 curata da Germano Celant alla Fondazione Prada di Milano dimostrò - se ce n'era bisogno - lo spettacolare livello di gusto, stile e creatività durante il Ventennio nel campo delle arti: pittura, scultura, design, arti applicate, grafica, architettura, urbanistica... L'Italia, visitando l'esposizione, ne usciva come una nazione straordinaria, per genio e talento. Ma lo spettro delle innovazioni portate dal fascismo sembra molto più ampio delle «belle arti». Oggi sostenerlo sembra una bestemmia, o una provocazione. Ma solo pochi anni fa si poteva ancora affrontare l'argomento.

Firenze, 2012. Palazzo Strozzi propone la mostra Anni '30. Arti in Italia oltre il fascismo (a cura di un gruppo di studiosi al di sopra di ogni sospetto). È la celebrazione della «battaglia artistica di grande vivacità» combattuta in un decennio-chiave del nostro '900, «vitale, aperto alla scena internazionale e introduttivo alla nostra modernità», come dimostrano gli oltre cento capolavori esposti di decine di artisti, da Sironi a de Chirico, da Carrà a Rosai, da Morandi a de Pisis. Non solo. Accanto alla mostra (che vuole raccontare «la via italiana alla modernità») la Fondazione CESIFIN della Cassa di Risparmio di Firenze organizza una serie di conferenze, scandite nei mesi a cavallo tra 2012 e 2013, in cui sono invitati alcuni fra i migliori specialisti delle proprie discipline per «rileggere» il Ventennio fascista.

Bene. Ora quegli interventi, in un primo tempo fatti circolare solo fra i relatori, vengono pubblicati col titolo Fascismo e modernizzazione (Passigli) a cura di Giuseppe Morbidelli, docente di Diritto amministrativo all'Università «La Sapienza» di Roma. Ed ecco sfilare Emilio Gentile sul rapporto tra cultura e politica; Fabio Merusi sulla tutela del paesaggio e i beni culturali (la legge Bottai, poi imitata in molti altri Paesi); Alessandro Petretto sull'economia e su come fu affrontata la crisi del '29; Sandro Rogadi sui progressi dell'agricoltura e l'impresa delle bonifiche; Renzo Costi sulla legge bancaria del '36; Francesco Perfetti su Gentile e la riforma della Scuola; Emanuele Severino sulla «rivoluzione» tecnologica; Pierluigi Ciocca sul capitalismo e la finanza...

L'idea suggerita è che accanto alle «egregie cose» messe in mostra a Palazzo Strozzi, in quegli anni anche in campo culturale, amministrativo, economico, tecnologico, scientifico e sociale ci fu una tensione che non venne mai meno. «Ma anzi - come scrive Morbidelli nell'introduzione - raggiunse livelli di eccellenza anche in una lettura comparativa con ciò che avveniva negli altri Paesi». Grazie a una dittatura sui generis (vuoi per la presenza di uno spazio culturale non occupato dalla fascistizzazione, oppure appositamente lasciato libero, vuoi per la presenza di vaste aree di agnosticismo o per una certa elasticità di cui era intriso lo Stato fascista) l'Italia di Mussolini fu capace di importanti politiche di modernizzazione.

L'elenco dei successi è lungo, dal Nobel di Luigi Pirandello (1934) in giù: la grande letteratura di Bontempelli, Alvaro, Montale, Gadda, Buzzati, Moravia, Pavese, Vittorini, Luzi... La vivacità incredibile dell'editoria e delle riviste. L'impresa dell'Enciclopedia Treccani. I risultati scientifici cui pervennero i «ragazzi di via Panisperna» con Fermi e Majorana in testa. I successi dell'industria aeronautica, automobilistica (la Fiat) e navale che si compendiavano nei voli transoceanici o nei molti primati di velocità. La visione «oltremodo lungimirante dei processi economici che ebbe ad inverarsi in una serie di misure incisive quanto innovative» (la legge istitutiva dell'IMI o dell'IRI, divenuto poi un istituto per la politica industriale che costituì un modello anche per il New Deal di F.D. Roosevelt, o la legge bancaria del 1936 che introdusse una disciplina di forte tutela del risparmio).

Il fascismo fu un regime dispotico e violento. Cieco dal punto di vista politico (l'alleanza con Hitler) ma non incapace. L'accordo tra gli studiosi, quelli che conoscono bene la Storia e non si fanno accecare dalla faziosità ideologica, in questo senso è piuttosto solido. E i dati non mancano, come dimostrano le lectio magistralis raccolte per volontà dello stesso patron della casa editrice, Stefano Passigli (già docente di Scienza politica all'università di Firenze e senatore dell'Ulivo...), sotto il titolo Fascismo e modernizzazione.

Solo da qui può partire una discussione non prevenuta.

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