Cultura e Spettacoli

"Ci vuole un ragazzo per riuscire a fondare il mondo nuovo"

"Pietra nera" è il secondo capitolo della saga di Nina dei lupi dello scrittore milanese

"Ci vuole un ragazzo per riuscire a fondare il mondo nuovo"

Alessio è il figlio di Nina dei Lupi e del «Fondatore», morto sacrificandosi per la gente della montagna. Dalla comunità di Piedimulo, Alessio deve partire in missione, attraversando la grande pianura - una Pianura Padana da incubo, invasa dalla natura selvaggia e dalla violenza - per assolvere al compito che gli ha affidato la madre. Con Nina dei lupi (Marsilio, 2011; sarà ripubblicato in autunno da nottetempo) Alessandro Bertante, alessandrino di nascita ma «milanese ariùs» («vivo qui da 48 anni») è arrivato in finale al Premio Strega. Ora, dopo l'autobiografico Gli ultimi ragazzi del secolo (Giunti, 2016, finalista al Campiello), ne ha scritto il seguito: Pietra nera (nottetempo, pagg. 280, euro 18,50), secondo capitolo della sua Trilogia del mondo nuovo. «Citazione da Huxley» (il quale a sua volta citava La tempesta di Shakespeare). Protagonista Alessio, il giovane eroe. In copertina la foto di una ragazza a seno nudo. «Facebook mi ha bloccato l'account per due giorni: l'algoritmo l'aveva censurata».

Com'è questo mondo nuovo?

«Sappiamo che c'è stata una Sciagura e il mondo è collassato. Ma non per le solite ragioni tipiche del romanzo distopico, come una guerra nucleare o le macchine che hanno preso il controllo: c'è stata una grande crisi economica, seguita da una epidemia. L'unico elemento disturbante sono le macchie sul sole, che nessuno sa spiegare, e incutono timore».

Una distopia?

«Io dico che è una utopia avventurosa. Non mi interessa tanto spiegare perché sia crollato il mondo vecchio; mi interessa quello nuovo. I protagonisti ripetono sempre: Noi siamo ogni futuro. Questo è un Paese per vecchi, io immagino dei giovani che rifondano una civiltà cadente, in mezzo a una natura egemone».

A chi si è ispirato?

«C'è il Cormac McCarthy di Cavalli selvaggi e Meridiano di sangue, più western e più violento. E poi il Jack London di fantascienza. London era un grandissimo scrittore d'avventura, e io tengo molto all'avventura».

Perché?

«È una delle componenti fondamentali del romanzo. In Italia non si può dire, ma tutti i capolavori si basano sull'avventura, a partire dai Promessi sposi».

Il suo è un romanzo «classico»: l'avventura, l'eroe, il viaggio di formazione, la missione...

«La forma romanzo, per certa critica, è superata. Per me è vivissima, fertile e onnivora».

Perché il romanzo sarebbe superato?

«Paga il prezzo delle accuse della Neoavanguardia degli anni '60. Ma oggi, mezzo secolo dopo, chi si rifà a quelle accuse per me è un reazionario».

Come ha costruito questa avventura?

«In modo classico: c'è un percorso, il viaggio dell'eroe, con incontri e prove iniziatiche. Quasi tutti i personaggi positivi che incontra sono donne».

Come Zara, che lo accompagna.

«Zara dà complessità a un personaggio troppo monolitico. Ma lo è appositamente: l'eroe classico uccide, cavalca e domina; non è tormentato come il giovane Werther... È un ragazzo in mezzo ai lupi».

Ha la fissa dei lupi?

«Il lupo è l'ancestrale, il selvaggio perduto. E anche la purezza: se non è affamato, il lupo non attacca».

C'è una natura selvaggia, la Pianura Padana fa paura.

«Ridiventa un po' come nel Medioevo, ricoperta di foreste. E, siccome cessano le attività agricole, immagino che torni il Lago Gerundo, che si trovava a sud-est di Milano».

Com'è il lago resuscitato?

«Una palude mefitica, una grande pozza, molto malarica. Mi affascina. I ricordi di quel lago restano nei nomi delle vie; oppure nel biscione, simbolo di Milano: è il drago Tarantasio, ucciso dai Visconti».

Che cosa sono le macchie sul sole?

«Sono il nostro inconscio tormentato. Il sole imprigionato fa paura».

Poi c'è Milano, tutta devastata.

«Alessio e Zara passano da qui, da via Dante, quando fuggono dai topi. Al Castello c'è una comunità di militari, ben amministrata dal Capitano, che ha il nome del mio amico Sergio Altieri, un grande scrittore di avventure, morto due anni fa. Milano è messa male ma, anche lì, è l'unica isola di civiltà in un Paese disgregato, come nell'Italia di oggi».

C'è anche molta violenza.

«Si mena, sì. E c'è una bella battaglia, quella del Ponte Gobbo sul Trebbia. Mi sono divertito a scriverla. Credo che la violenza sia il motore della crescita umana, soprattutto in un momento di rifondazione. La nostra civiltà è basata sulla violenza».

Ci sono perfino i barbari.

«I predoni sono una concessione alle distopie classiche. Poi c'è l'Armata a cavallo, perché quello sarà il terzo capitolo, lo scontro finale. Sono un po' ossessionato. Anni fa ho scritto un libro per il Saggiatore, La magnifica orda. Sento il fascino di queste torme di cavalieri che spaccano le civiltà, le distruggono; una forma di energia anche positiva».

Come mai lo stile ha un ritmo così alto?

«Il ritmo è veloce, però ci sono dei rallentamenti improvvisi, per fare emergere l'incanto, o i pensieri dei protagonisti. È una scelta voluta: nella paratassi, nei capitoli brevi e in una terza persona molto sostenuta».

Che lettore immagina?

«Dai 15 agli ottant'anni. È un romanzo d'avventura con una lingua letteraria».

Quanto ha impiegato a scriverlo?

«Tanto. Due anni. Su questo stile ho dovuto lavorare».

Come?

«Leggendo ad alta voce, in mezzo alla stanza. Se, mentre leggi, ti interrompi da solo, non funziona. Devi sentire il suono. Così scopri di nuovo che cosa sia la punteggiatura: solo ritmo».

Perché sono le donne a essere magiche, nella storia?

«La magia è femminile, la furia è maschile.

In questo sono tradizionalista, un indoeuropeo classico».

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