Cultura e Spettacoli

Il cinema scopre Buckley Tre film su di lui E Brad Pitt perde il ruolo...

Il talentuoso Jeff si suicidò nel '97 e Hollywood ne sfrutta la leggenda. Altolà della madre del musicista: il divo non è adatto a interpretarlo

Il cinema scopre Buckley Tre film su di lui E Brad Pitt perde il ruolo...

Jeff Buckley, genio melanconico della canzone Usa, scomparso nel 1997, a trent'anni, nelle acque del fiume Wolf River, ha tutto per svegliare le smanie nostalgiche: bellezza, aura maledetta, morte controversa, (era sotto l'effetto di droghe o no?) rapporto irrisolto con la figura del padre (Tim pioniere della contaminazione tra jazz e folk, morì a 28 anni sull'onda di un'esistenza scombinata, si occupò poco o nulla del figlio) e un unico disco pubblicato in vita, il capolavoro Grace, del 1994. Inizialmente poco considerato, via via diventato un classico.
Qualche dubbio, insomma, lo destava semmai il fatto che il momento di Jeff Buckley fosse in ritardo sull'orologio del revival. Si rimedia ora con ben tre film, in uscita o in produzione. Il primo è Greetings from Tim Buckley. Ben accolta a Toronto nello scorso settembre, la pellicola di Daniel Algrant con Penn Badgle è centrata sul rapporto padre-figlio, che culminò nel concerto-tributo del 1991 di Jeff alla memoria di Tim, morto nel 1975.
A seguire arriverà A pure Drop, dell'australiano Brendan Fletcher, basato sulla biografia di Buckley scritta da Jeff Apter. Anche qui al centro del plot dovrebbe esserci il rapporto padre-figlio.
Ma il biopic «ufficiale» sul cantautore di Grace dovrebbe essere Mistery White Boy, la cui produttrice esecutiva è la madre di Jeff, Mary Guibert, ferrea amministratrice dell'immagine post mortem del figlio. A quanto ne racconta un gustoso articolo dell'Atlantic, la Guibert avrebbe fatto fuori dalla produzione il regista Jake Scott in favore di Amy Berg, e avrebbe respinto le proposte di un Brad Pitt più che voglioso di prendere parte al film, ritenendo troppo fantasiosi i copioni proposti dall'attore. Sembra che una scena prevedesse un incontro onirico tra padre e figlio, propiziato dall'Lsd, e si sa che la Guibert ha sempre asserito che il figlio non facesse uso di droghe.
Ma al di là delle beghe usuali, e più o meno monopolistiche, su chi dovrebbe amministrare le memorie della stella estinta, resta il fatto che a quasi 16 anni dalla scomparsa la figura di Buckley cresce sempre più di fascino e influenza, e non si tratta solo di un prestigio legato al canonico effetto retrò. Anche perché Buckley, con le sue canzoni in bilico tra cantautorato post, impennate rock duro, e sensibilità jazzistica per il dialogo strumentale, non fa coerentemente parte del sound anni '90. Il disco Grace, ritenuto uno dei capisaldi rock da David Bowie, Bob Dylan, Robert Plant, e infiniti altri mostri sacri, brilla ancora per la freschezza delle composizioni, dalla quasi-progressive Grace, al quadretto di disperazione di un uomo abbandonato che è So Real, alla sberla sonora di Eternal life, fino alla cronaca interiore di un figlio abbandonato dal padre che è Dream Brother.
Insomma, se gli ingredienti biografici maudit per una sicura presa come soggetto cinematografico il personaggio Buckley li possiede tutti, quello che rimane delle sue canzoni è l'incredibile maestria tecnica, come chitarrista, autore, e soprattutto come cantante. In grado di raggiungere tonalità femminili, ma con la potenza di emissione di un uomo, Buckley passava dal rock alla delicatezza più diafana con una padronanza superba, come si nota in Corpus Christi Carol, classico inglese del 500 «coverizzata» in Grace riprendendo la versione del 1933 di Benjamnin Britten. E come si vede ancor meglio in Hallelujah, il brano di Leonard Cohen del 1984 che, da quando fu ripreso da Buckley, è diventato un tormentone universale: 200 cover incise in tutto il mondo, una lista infinita di esecuzioni (da Bob Dylan a John Cale, da Justin Timberlake a Elio e le storie tese), una presenza costante come colonna sonora di scene malinconiche di film e serie tv: da Shrek a E.R., da The West Wing a Dr.House. Una melodia meravigliosa, e perfettamente tonale, per un testo ambiguo: una ripresa biblica che finisce, secondo quanto ne disse Buckley a commento della sua versione, per glorificare l'orgasmo.

Ed è proprio grazie alle tante ambiguità, stilistiche e biografiche, che il genio irrisolto e interrotto Jeff Buckley continua ad attirare pubblico.

Commenti