Cultura e Spettacoli

Coco, che amava i libri e odiava gli accademici

In mostra a Venezia gioielli, vestiti, disegni e volumi che raccontano una donna unica

Coco, che amava i libri e odiava gli accademici

da Venezia

«I libri sono stati i miei migliori amici e la vita l'ho appresa dai romanzi» dirà Coco Chanel a Paul Morand. Era subito dopo la Seconda guerra mondiale e si erano ritrovati entrambi in Svizzera, esule forzoso lui, in esilio volontario lei, l'ombra lunga del governo di Vichy e del collaborazionismo a far loro compagnia. Il vero nome di Coco era Gabrielle e quel diminutivo le veniva dal ritornello di una canzoncina, Qui qu'a vu Coco dans le Trocadéro, da lei intonata nei caffè-concerto del primo Novecento, quando faceva la poseuse, fra un numero e l'altro dello spettacolo. Nata nel 1883, di umili origini, cresciuta in orfanotrofio perché abbandonata dal padre, Gabrielle Chanel aveva cominciato da subito a reinventare se stessa e in quel 1946 in cui si raccontò a Morand la legenda era ormai completa, la vita che imita l'arte e non viceversa: un padre andato a cercare fortuna in America, delle zie possidenti, un allevamento di cavalli, le vacanze alle terme... «Ho letto parecchio, soprattutto brutti romanzi. Dipingono una società in modo più stupefacente di quelli buoni. Mi hanno insegnato la vita, alimentavano la mia sensibilità e il mio orgoglio. Sono sempre stata orgogliosa».

La fortuna di Chanel, il suo genio a parte, la fece Misia Sert, che stava a Parigi come la dea Kalì sta al pantheon indù: Jean Cocteau la chiamava «la Mammana», Erik Satie l'aveva soprannominata «la Comare Ucciditutto». Aveva posato per Renoir, Bonnard, Picasso, era amica di Diaghilev e Stravinskij, aveva sposato il fondatore della Revue Blanche, poi il direttore del quotidiano Le Matin, infine il pittore Josè Maria Sert, sarebbe vissuta per cinquant'anni in mezzo ai più grandi artisti senza mai aprire un libro. «Non leggeva nemmeno le sue lettere» dirà Coco Chanel a Morand. Nella trentenne modista che grazie al primo amante, Etienne Balsan, era entrata in società, grazie al secondo, Arthur «Boy» Capel, aveva messo su una cappelleria e grazie alla Prima guerra mondiale un negozio di moda a Biarritz, per la clientela femminile rifugiatasi sulle coste a evitare i disagi del conflitto, Misia intuì l'assoluto di un temperamento, la violenza di un carattere. Le fece incontrare Auric e Braque, Radiguet e Cendrars, i già citati Cocteau, Diaghilev e Stravinskij, in breve il nuovo che mandava in pensione il vecchio, il futuro che spazzava via il presente e il passato. È allora che appare, racconterà Coco a Paul, l'angelo sterminatore di uno stile XIX secolo, è allora che, come lei stessa rivendicherà con fierezza, «ho restituito al corpo delle donne la libertà; quel corpo sudava negli abiti da parata, sotto le trine, i busti, la biancheria intima, le imbottiture». È con lei che nasce la semplicità dispendiosa, lo snobismo contro se stessi, il trionfo della linea sull'ornamento, il meglio del XX secolo.

A Ca' Pesaro a Venezia, nella bella mostra Culture Chanel, la donna che legge (a cura di JeanLouis Froment, fino all'otto gennaio), questo singolare impasto di frivolezza e di cultura, di effimero e di duraturo rivive negli oltre trecento pezzi che la compongono: gioielli, vestiti, profumi, dediche, fotografie, disegni, vestiti e, naturalmente, libri. Rabelais e Montaigne, Baudelaire e Barbey d'Aurevilly, Lautréamont e Proust, prime edizioni ed edizioni d'arte, copie firmate e copie dedicate... «La vita che conduciamo non è mai granché, la vita che sogniamo è invece la grande esistenza perché la continueremo dopo la morte» scrive Coco sulla pagina di un taccuino che fa da introduzione al percorso e la sua fu del resto un alternarsi di trionfi e di rovine, delusioni e successi, lutti e amarezze. Assente per più di un quindicennio dal palcoscenico della moda, dall'atelier di rue Cambon Chanel tornerà a dettare la legge del suo stile ancora a metà degli anni Cinquanta e sino alla morte, caparbia e beffarda, indisponente: «Le donne sono tutte delle portinaie. Sono povere cose. Vogliono votare, fumare, servirsi d'armi che non conoscono... Avevano dispiaceri, lacrime, a loro occorre di più... La peggiore è la donna erudita, la poetessa, quella che fa politica. Preferisco una donna a cui piacciono i negri a una donna a cui piacciono gli accademici».

Fra i tanti libri di lei e su di lei, spiccano nella mostra L'allure de Chanel, ovvero i ricordi svizzeri raccolti da Morand e da cui siamo partiti, dove allure sta per andatura «in tutti i sensi della parola, ovvero ritmo fisico e morale» e, sempre di Morand, quel Lewis et Irène in cui è adombrata la sua storia d'amore con «Boy» Chapel. «Mi sarebbe insopportabile ricevere senza dare, essere un oggetto di lusso, come tutte le donne, costoso ieri, oggi dannoso. Sono un'isola, qualcosa di semplice e di isolato» dice Irène.

Ed è puro Chanel.

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