Cultura e Spettacoli

Ma com'è corretto «Lo schiavista» dello scorretto Beatty

Gianluca Barbera

In America è apparso come un ciclone. La critica si è sperticata in lodi. Si è aggiudicato a inizio anno il National Book Critics Circle Award e ora il Man Booker Prize, riservato ai migliori romanzi in lingua inglese pubblicati nel Regno Unito. È la prima volta per un autore americano. Stiamo parlando di Lo schiavista di Paul Beatty (Fazi, pagg. 367, euro 18,50, traduzione di Silvia Castoldi), autore già noto per Tuff e la sua banda (Mondadori, 2000) e Slumberland (Fazi, 2010), che ora cavalca l'onda ponendo al centro la questione razziale e il tema delle lacerazioni sociali che attraversano il Paese più ricco e potente del mondo. E lo fa con una prosa talmente esuberante da irretire il lettore. «So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente» è l'incipit del romanzo, che prosegue tra iperboli e irriverenze in serie.

Ma alla lunga è proprio la mancanza di misura a produrre assuefazione e un montante senso di rigetto. La storia è a dir poco acrobatica. Siamo a Dickens, ghetto nero di Los Angeles («la città più razzista del mondo»). Il padre del protagonista è uno studioso di scienze sociali che si batte in difesa della comunità nera. Il figlio, giudicato dal padre «un esperimento sociale fallito», vive nel quartiere chiamato Le Fattorie e fa l'agricoltore (specializzato nella produzione di angurie quadrate e marijuana). Alla morte del genitore (ucciso per sbaglio dalla polizia) tenta di prenderne il posto nella comunità. Ma Dickens è il peggior sobborgo d'America, in pieno degrado. E così il governo decide di farlo scomparire dalle carte geografiche revocandogli lo status di municipalità. Per riportarlo in vita il protagonista ricorrerà a uno stratagemma paradossale: tenterà di reintrodurvi la schiavitù e la segregazione razziale. Cosa che lo condurrà davanti alla Corte Suprema con una sfilza di capi di accusa da far impressione. Ma non temete. È subito chiaro che l'atteggiamento della Corte sarà mite in virtù degli effetti benefici sortiti dall'esperimento: in breve i crimini si sono ridotti e il disagio sociale è diminuito. Il razzismo pare aver funzionato da freno inibitore, costringendo tutti a un bagno di umiltà. E poi, nonostante le colpe, l'imputato ha finito col far emergere una verità scomoda: in America la discriminazione razziale persiste nei fatti e l'elezione del primo presidente nero non ha prodotto alcun serio miglioramento. Conclusione: la vera uguaglianza si otterrà solo con lo stadio finale del Nero Assoluto, che è «semplicemente fottersene alla grande» poiché «anche se tutto è incasinato e privo di senso, a volte è il nichilismo a rendere la vita degna di essere vissuta». Questa, dunque, la lezione che ci viene impartita.

Il romanzo certo ha parecchi pregi ma, benché in alcuni momenti possa far gridare allo «Stoner nero», non può dirsi del tutto riuscito. Anche se Beatty si dà parecchio da fare per risultare politicamente scorretto, le sue trovate e i suoi pensieri arditi non riescono a nascondere le finalità pedagogiche dell'opera. Vi circola inoltre un'ossessione per la questione del colore della pelle che ha del patologico. Per non parlare dei continui ossequi al femminismo, che nel mondo anglosassone pare vada sempre omaggiato. Il testo è difatti letteralmente disseminato di personaggi femminili iperbolici: donne cazzute che fanno tutto meglio degli uomini e li zittiscono di continuo dall'alto della loro saggezza.

È così Beatty, partendo dall'intento di confezionare un libro che se ne frega dell'ortodossia culturale, finisce per offrircene uno involontariamente ligio al politically correct, dal momento che, come direbbe iek, alla fine non vi è alcuna vera rivoluzione, tutti «fanno il loro lavoro in modo esemplare, e così non rappresentano alcuna minaccia».

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