Cultura e Spettacoli

Così Carrère il radical chic mistifica il dramma di Calais

Invece di un reportage sull'immigrazione lo scrittore francese ha composto un librino pieno di luoghi comuni e pregiudizi

Così Carrère il radical chic mistifica il dramma di Calais

Radical chic sembrava un'espressione obsoleta, usata da commentatori attardati. Io fino a quando non ho letto A Calais di Emmanuel Carrère (Adelphi) mi sarei vergognato di usarla se non per citare Tom Wolfe che la lanciò nel remotissimo 1970 descrivendo il party organizzato in un attico molto chic di Manhattan da Leonard Bernstein, ricco e famoso direttore d'orchestra, in favore delle molto radical Pantere Nere, movimento razzista-leninista che diceva cose tipo: «Vogliamo la fine della rapina della nostra comunità nera da parte dell'uomo bianco». L'uomo bianco Bernstein sosteneva le violente rivendicazioni dei neri così come oggi l'europeo Carrère sostiene le muscolari pretese degli africani e degli asiatici che a milioni invadono l'Europa. Anche lui, appunto da buon radical chic (l'espressione nel libro torna spesso), tiene gli oggetti della propria ammirazione a debita distanza: così come Bernstein si guardò bene dal trasferirsi ad Harlem, continuando ad abitare nell'attico di 13 stanze di Park Avenue, Carrère nella più grande bidonville del continente, zeppa di immigrati bramosi di conquistare la ricca Albione, ha fatto solo una rapida visita il cui racconto occupa una pagina, cuore microscopico di un libro minuscolo che si dichiara reportage letterario, peccato solo che lo scrittore francese non sia Tom Wolfe e nemmeno V.S. Naipaul o Franco Arminio, per citare due autori capaci di descrivere luoghi disameni (Africa nera, Alta Irpinia) con stile altrettanto personale e però meno frivolo.

Una pagina in cui lo squallore sia materiale che morale (regolamenti di conti, stupri...) del mega-accampamento viene messo fra parentesi perché c'è ben altro da comunicare ossia la sensazione di «qualcosa di estremamente esaltante: un'energia, una straordinaria fame di vita». In effetti gli stupri sono una manifestazione di energia, imprese fuori dalla portata di noi vecchi europei flemmatici... Mi viene in mente Montanelli, colui che ha introdotto il termine radical chic nel dibattito italiano scrivendo una lettera aperta alla Camilla Cederna invaghita degli anarchici: «Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci». Carrère non indossa il filo di perle dell'altezzosa giornalista ma nelle sue vene scorre sangue blu e può vantare una madre accademica di Francia, sarà per questo che continua a innamorarsi intellettualmente di più o meno esotiche canaglie, dallo sterminatore della propria famiglia Jean-Claude Romand, protagonista de L'avversario, al nazicomunista Limonov celebrato nell'omonima, chissà perché vendutissima, biografia.

Purtroppo il radical-chicchismo più che dall'amore verso persone appartenenti a classi o razze avverse (quello semmai sarebbe il cristianesimo) è animato dal disprezzo verso chi non condivide lo stesso atteggiamento. «Mi sarebbe piaciuto ritrarre dei Calesiani arrabbiati che non fossero dei completi imbecilli, devo ammettere che quelli che ho incontrato sono quasi tutti così». Cornuti e mazziati, i poveri abitanti di Calais: non solo devono vivere vicino a una polveriera, non solo i turisti sono fuggiti, non solo il valore delle loro case è crollato, adesso devono anche sopportare gli insulti di Carrère. Che non nasconde i disagi, per chiamarli con un eufemismo, a esempio il rischio di vedersi arrivare un carrello da supermercato sul parabrezza, siccome i cosiddetti migranti buttano oggetti sulla circonvallazione per rallentare il traffico e saltare sui camion in procinto di infilarsi nell'Eurotunnel, destinazione Inghilterra. Non li nasconde ma esorta a subirli senza una reazione, senza un lamento, soprattutto senza un voto al Front National che invece con grande scorno di questo damerino della letteratura, sempre in posa e sempre col ditino alzato, una specie di Bernard-Henri Lévy col pullover al posto della camicia, in alcuni quartieri raccoglie la maggioranza assoluta. Gli autoctoni che sognano di vivere nella douce France e non in un'amara Waste Land sono etichettati come razzisti e fanatici, i loro «più che discorsi di malvagi sono discorsi di poveri, e poveri di cultura oltre che di denaro». Pezzenti e ignoranti ovvero lepeniani. Carrère a Calais si trova a suo agio solo al centro culturale, il solito pezzo di archeologia industriale trasformato in teatro, libreria, caffé ovviamente letterario, rivendite di prodotti alimentari ovviamente bio. Il Channel, così si chiama questo spazio forse però più radical che chic (trattasi pur sempre di piccola città di provincia), offre ospitalità alle associazioni pro-migranti, attira clienti che «votano rigorosamente a sinistra» e «ha la pretesa, giustificata, di essere l'anima della città».

Più che un reportage, più che uno sguardo su una realtà attuale, A Calais appare un antico libro tribale, una piccola antologia di stereotipi e superstizioni composta allo scopo di negare lo statuto umano agli appartenenti a tribù diverse da quella dell'autore.

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