Cultura e Spettacoli

Così il regime fascista diede voce (politica) alla piccola borghesia

I ceti medi emergenti non avevano mai avuto una vera rappresentanza: ci pensò Mussolini a fornirgliela

Così il regime fascista diede voce (politica)  alla piccola borghesia

Nella celebre Intervista sul fascismo, rilasciata nel 1975 allo storico americano Michael Arthur Ledeen, Renzo De Felice sintetizzò la sua posizione interpretativa sul fascismo propriamente detto, quello italiano, e sul «fenomeno fascista», in generale. Il linguaggio divulgativo e la stessa tecnica dell'intervista consentirono allo studioso il quale, dopo la pubblicazione di Gli anni del consenso 1929-1936, stava già lavorando al tomo dedicato a Lo Stato totalitario 1936-1940 di fissare alcuni punti fermi cui era giunta la propria ricerca e di sottolinearne così, sia pure implicitamente, la portata rivoluzionaria in campo storiografico. Le tesi contenute nell'intervista, infatti, dimostravano l'inconsistenza delle conclusioni di gran parte della storiografia precedente che, condizionata da una visione ideologica e moralistica, partiva dall'idea che il fascismo fosse stato soltanto un movimento brutale e violento, incolto e nemico della cultura, profondamente reazionario. La distinzione operata da De Felice tra fascismo movimento e fascismo regime modificava tutti quei discorsi che presupponevano la convinzione che il fascismo fosse un fenomeno unitario da valutarsi en bloc. Essa, infatti, non soltanto enucleava fasi o momenti della vicenda storica del fascismo ma ne individuava e caratterizzava le componenti. Il fascismo movimento rappresentava «una costante della storia del fascismo», un «filo rosso» che collegava il marzo 1919 all'aprile 1945 ed esprimeva «quel tanto di velleità rinnovatrice, di interpretazione di certe esigenze, di certi stimoli, di certi motivi di rinnovamento». Esso insomma, individuava «la vitalità del fascismo» laddove il fascismo regime ne costituiva «per certi aspetti la negatività» in quanto risultato della politica di un Mussolini capo del governo, che faceva «del fatto fascismo solo la sovrastruttura di un potere personale, di una dittatura, di una linea politica». Dalla distinzione tra fascismo movimento e fascismo regime discendeva, poi, l'idea della esistenza di una componente rivoluzionaria di sinistra all'interno del fascismo, retaggio del sindacalismo rivoluzionario e dall'influenza di questo su Mussolini e su parte del nucleo dirigente del movimento fascista. Questo fascismo movimento era, secondo De Felice, «in gran parte l'espressione di ceti medi emergenti» ovvero di quei ceti che, «essendo diventati un fatto sociale», cercavano di ottenere peso, potere e partecipazione politica. Man mano che si andavano ingrossando le sue file e pur aprendosi a tutti gli ambienti sociali, il fascismo si era caratterizzato sempre più «in senso piccolo-borghese». In tal modo esso era diventato «il più importante punto di riferimento e di attrazione per quei settori della piccola borghesia che aspiravano ad una propria maggiore partecipazione e direzione della vita sociale e politica nazionale, settori che non riconoscevano più alla classe dirigente tradizionale e a quella politica in specie né la capacità né la legittimità di governare, e, sia pur confusamente, contestavano anche l'assetto sociale che essa rappresentava».

Ancora più dirompente di questa analisi centrata sulla distinzione tra fascismo movimento e fascismo regime apparve il discorso sulle differenze tra fascismo e nazionalsocialismo: discorso non solo indigesto ma eretico per quanti volevano vedere nei due regimi manifestazioni di un medesimo fenomeno e consideravano l'alleanza italo-tedesca come un esito obbligato. Per De Felice c'era, tra i due movimenti o regimi, una differenza di natura si potrebbe ben dire culturale: il nazionalsocialismo guardava al passato remoto, al recupero della tradizione dei valori germanici in contrapposizione al mondo moderno; il fascismo faceva propria l'idea di «progresso» e postulava la creazione di un «uomo nuovo». Non era una differenza da poco: il fascino di Sigfrido e degli eroi della mitologia nordica contrapposto alle seduzioni della modernità e dell'utopismo rivoluzionario. C'erano, ancora, differenze profonde sul ruolo del partito, perché il fascismo perseguì la depoliticizzazione del Pnf e la sua subordinazione allo Stato, mentre il nazionalsocialismo si fondò proprio sulla preminenza del partito sullo Stato. Infine c'era una diversità nel grado di realizzazione del totalitarismo, dal momento che il regime nazionalsocialista fu uno Stato totalitario nel senso proprio del termine, mentre quello fascista non perse mai alcuni caratteri dello Stato di diritto.

Tutto ciò spiegava anche come e perché Mussolini e il fascismo (o gran parte di esso) non avessero nutrito grande simpatia per Hitler e il suo movimento, almeno fino a quando, dopo la guerra di Etiopia e la guerra di Spagna, la situazione internazionale aveva finito di fatto per imporre una sorta di «rovesciamento delle alleanze», peraltro non da tutti ben digerito. Prima di allora, l'attività diplomatica dell'Italia fascista si era mossa, pur con una diversità di «stile», lungo le linee direttrici dell'Italia postunitaria e liberale. Del resto, la «politica del peso determinante», teorizzata da Dino Grandi per indicare la necessità che l'Italia dovesse far valere il suo «peso specifico» nella bilancia dei rapporti internazionali, altro non era se non una traduzione aggiornata della classica «pendolarità» della politica estera italiana dell'età postrisorgimentale. L'Italia fascista, insomma, era più proiettata verso la ricerca di accordi e di collaborazione con i suoi alleati all'epoca della Grande Guerra, in particolare con la Gran Bretagna, che non con i nazionalsocialisti, come si era potuto verificare in più occasioni, a cominciare dall'invio delle divisioni italiane al Brennero all'epoca della crisi per il primo e non riuscito tentativo di Anschluss. Questa lettura della politica estera del fascismo proposta da De Felice nella sua opera principale non poteva, naturalmente, che apparire eretica a quanti, storici e non, sulla base di una semplificazione ideologica, si ostinavano a leggere la storia del fascismo come quella di una dittatura incolta e brutale votata inevitabilmente alla guerra per la guerra.

Ma era (ed è, tuttora) una lettura aderente ai fatti e capace di spiegare, per esempio, la logica ma anche i limiti, le illusioni, le ingenuità e, quindi, il fallimento dell'idea mussoliniana di imbarcarsi furbescamente nel 1940 in una «guerra parallela» cioè in una guerra «breve» da combattersi non «con» i tedeschi né «per» i tedeschi ma «a fianco» dei tedeschi.

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