Cultura e Spettacoli

Debiti, drink paure e gelosie. Fitzgerald si confessa...

Debiti, drink paure e gelosie. Fitzgerald si confessa...

Altro che feste, ville e tuxedo... Ecco la vera vita di Francis Scott Fitzgerald. Fatta di: scrittura, paura che i critici dicano che lui e Zelda sono sempre ubriachi, scrittura, debiti, scrittura, prestiti, scrittura, rendiconto dei libri venduti e dei diritti cinematografici, scrittura, gelosie per Zelda che lo fa impazzire, refusi (aveva problemi si spelling, ne faceva a centinaia), scrittura, rabbie, scrittura...

Sarà stato brillante, senza dubbio, il vecchio Fitz. Ma a leggere le lettere ora raccolte in Sarà un capolavoro (minimum fax, pagg. 298, euro 15; a cura di Leonardo G. Lucone) che vanno dai primi successi, siamo nel '17-20, fino alle luci opache di Hollywood, cioè gli anni 1937-40, e scritte al suo editor Maxwell Perkins, all'agente Harold Ober e agli amici scrittori (da Edmund Wilson, il suo adorato Bunny, a Ernest Hemingway che lui scrive sempre con due «m»), l'impressione è quella di un uomo ossessionato dai tre obiettivi che si era posto giovanissimo: sposare Zelda, scrivere libri di «valore perenne», e guadagnare un sacco di soldi per vivere «sopra gli schemi». Fiztgerald è fragile, inquieto ovunque sia, tormentato dal lavoro (continua a elencare i libri a cui sta lavorando, quanto sono lunghi in numero di parole, quanti dollari ci potrà fare...), preoccupato dagli altri scrittori (chiede le vendite di Ring Lardner, legge tutti i romanzi che vanno in classifica per fare confronti, «cura» da vicino la carriera dell'amico Hemingway...), impensierito da ogni più piccolo aspetto editoriale: per i suoi libri dà indicazioni sulle copertine, sul periodo di uscita, sui giornalisti a cui mandarli, sugli «strilli» pubblicitari... È così noioso, se ne rende conto, che parla di sé come di un «odioso brontolone» e in una lettera al suo editor si firma «l'individuo più seccante di qua dal paradiso»...

Comunque dalle lettere di Fitzgerald (che valgono più di una biografia) si capiscono parecchie cose. La sua ciclica disperazione («Non ne posso più della vita, dell'alcol, della letteratura (...) Sono stufo della flaccida fiacchezza semi-intellettuale in cui annaspo insieme al resto della mia generazione»). Che è succube dell'ozio (se si rialza, lo fa per Zelda). Che odia scrivere racconti (li considera solo «scopate» per fare soldi). E che però è cosciente, quando sta per uscire Il grande Gatsby (di cui non amò mai il titolo), che «sia il miglior romanzo americano mai scritto».

E questo, capita solo ai più grandi.

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